«Il movimento di liberazione della parola delle donne non può avere come corollario la privazione del diritto a difendersi». Gli avvocati Delphine Meillet e Alain Jakubowicz, difensori del cineasta Roman Polansky, puntano il dito contro «il contesto soffocante» provocato del Metoo in cui «la testimonianza pubblica assume il valore della prova e, di conseguenza della verità».

Polansky, oggi 90enne, è alla sbarra a Parigi per rispondere all’accusa di diffamazione nei confronti dell’attrice britannica Charlotte Lewis che nel 2019 aveva qualificato come «bugiarda e affabulatrice». Quello stesso anno Lewis lo chiamò in causa per dei fatti gravissimi senza però denunciarlo, sostenendo di aver subito violenza sessuale dal regista durante un casting nel 1983, quando aveva appena 16 anni. Intervistato dal settimanale Paris Match Polansky replicò indignato alle accuse, parlando di «odiose bugie». Quando la giornalista gli chiese che vantaggi avrebbe mai dovuto ottenere la donna nel denunciarlo pubblicamente la risposta fu secca e sprezzante: «E cosa ne so io? Bisognerebbe chiederlo a degli scienziati, a degli storici, forse a degli psicoanalisti».

Nel corso dell’udienza Lewis ha affermato di aver portato Polansky davanti i giudici «per difendere in modo imperativo la reputazione e l’onore», ribadendo l’accusa di stupro: «Per me era come un padre, una specie di mentore, ho realizzato la gravità di quel che mi era accaduto solamente trent’anni dopo». Poi si è lamentata della «campagna di denigrazione distruttiva» di cui sarebbe stata oggetto dopo che la vicenda è diventata di pubblico dominio.

Secondo la difesa la ricostruzione dell’attrice sarebbe infarcita di contraddizioni e di menzogne, in particolare l’avvocato Jakubowicz cita un’intervista rilasciata da Lewis nel 1999, sedici anni dopo la presunta violenza sessuale, al tabloid britannico News of the World nella quale testimoniò l’ammirazione e l’affetto che provava per il vecchio cineasta, sostenendo di esserne «affascinata», di volerne diventare «l’amante» e concludendo che lo voleva «più di quanto mi volesse lui».

Visibilmente emozionata, Lewis ha contestato le dichiarazioni riportate dal tabloid, spiegando che le sue parole sono state distorte e manipolate e che non le avrebbe mai pronunciate realmente. Jakubowicz ha però sottolineato come l’attrice abbia ricevuto un compenso per concedere quell’intervista, circostanza che a suo dire renderebbe poco credibili le sue tardive rimostranze. Lo stesso procuratore è dovuto intervenire per mettere ordine: «La questione che qui ci interessa non è se Roman Polanski abbia commesso o meno gli atti denunciati da Charlotte Lewis. Né si tratta di dare o meno credito ai giornalisti di News of the World. Si tratta di sapere se Roman Polanski ha fatto un uso sproporzionato della sua libertà di espressione quando ha pronunciato le dichiarazioni di cui è accusato».

Gli avvocati ricordano alla giuria due casi simili che hanno fatto giurisprudenza nelle cause per diffamazione in Francia e che riguardano proprio il movimento Metoo. La scrittrice Alexandra Besson che sul suo blog aveva accusato di aggressione sessuale l’ex ministro socialista Pierre Joxe durante uno spettacolo all’Opera di Parigi, e la giornalista Sandra Muller, inventrice dell’hastag #balancetonporc (denuncia il tuo maiale) che aveva tirato in ballo l’imprenditore Eric Brion colpevole di averle fatto delle avances volgari. In entrambi i casi la corte di cassazione aveva stabilito che non ci fu diffamazione in quanto le affermazioni di Besson e Muller «si inscrivono in un dibattito di interesse generale sulla liberazione della parola delle donne».

In sostanza se si ha il diritto di accusare qualcuno di violenza o molestie sessuali dovrebbe essere concesso anche accusarlo di avere mentito: «Queste due importanti sentenze della cassazione non possono essere riservate soltanto alle donne», sottolineano i difensori di Polansky. L’avvocata Meillet aggiunge che il suo cliente non ha mai denunciato nessuno, ma nel momento in cui viene messo alla sbarra può legittimamente replicare alle accuse: «Il suo unico diritto sarebbe quello di tacere? La sua parola ha lo stesso valore della parola di chi lo accusa».

Approfittando della grande visibilità del processo sui grandi organi di informazione francesi, Jakubowicz e Meillet non hanno esitato a evidenziare le derive giustizialiste del movimento Metoo e il pericoloso scivolamento verso il processo mediatico: «Un imputato gettato in pasto ai media ha lo stesso diritto di difendersi delle sue accusatrici? Questa domanda fondamentale, quella della libertà di difendersi e replicare, è Roman Polanski che la sta ponendo. Cosa si sta facendo in questa aula di giustizia se non provare a farvi dire che Roman Polanski è colpevole di stupro chiedendovi di condannarlo per diffamazione?». Il verdetto è atteso per il prossimo 4 maggio, ma secondo tutti gli osservatori appare scontato che il regista verrà prosciolto dall’accusa di diffamazione.