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Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu speaks during the annual ceremony at the eve of Israel's Remembrance Day for fallen soldiers (Yom HaZikaron) at the Yad LaBanim Memorial in Jerusalem on Tuesday, April 29, 2025. (Abir Sultan/Pool Photo via AP)
«Non possiamo affamare i civili palestinesi e non possiamo sacrificare i nostri ostaggi, con queste idee andiamo dritti verso il disastro». Lo sfogo del capo di stato maggiore israeliano Eyal Zamir contro il ministro della sicurezza, il “falco” Ben Gvir, è solo l’ultimo capitolo del conflitto silenzioso tra l’esecutivo e gli apparati di sicurezza che dai massacri del 7 ottobre 2023 scuote le istituzioni dello Stato ebraico. Ma anche il più emblematico, considerando che Zamir, nominato lo scorso febbraio, è (o forse era) un beniamino dell’ultradestra, il generale che avrebbe dovuto sferrare il colpo letale alle milizie di Hamas.
Ma il piano per l’occupazione a tempo indeterminato della Striscia di Gaza approvato lunedì scorso dal gabinetto di guerra ha suscitato reazioni di aperta contrarietà da parte dei vertici delle Forze di Difesa Israeliane (Idf). La posizione dell’Idf, sebbene non espressa in termini esplicitamente politici, è trapelata in modo chiaro. Lo Stato Maggiore ritiene che un’occupazione permanente della Striscia sia strategicamente insostenibile, militarmente rischiosa e politicamente devastante, soprattutto in assenza di una visione chiara per il “dopo Hamas”.
La crisi odierna affonda le radici nel trauma del 7 ottobre 2023: a quasi due anni dal più grande massacro di ebrei del dopoguerra, le accuse reciproche sulle responsabilità politiche di quanto accaduto restano un veleno che corrode le istituzioni israeliane. Mentre i vertici militari hanno riconosciuto le proprie mancanze, a partire dalle dimissioni del generale Aharon Haliva, Netanyahu e i suoi ministri hanno evitato qualsiasi ammissione di colpa. La linea del governo è stata chiara: tutta la responsabilità è di Hamas. Ogni critica interna è stata letta dal premiert come una minaccia politica, ogni dissenso come una mancanza di lealtà.
Il 25 gennaio 2024, oltre 150 ex alti ufficiali delle Forze di Difesa israeliane, dello Shin Bet e del Mossad – tra cui l’ex capo del Mossad Tamir Pardo e il generale Amiram Levin – avevano firmato una lettera aperta per chiedere pubblicamente la rimozione del premier, accusandolo non solo di aver ignorato segnali premonitori dell’attacco di Hamas, ma anche di aver «consumato la fiducia delle istituzioni democratiche» a favore di un potere personale sempre più autoritario.
Questa dinamica ha generato una crescente tensione con i capi dell’intelligence e della sicurezza interna, individuati dal governo come capri espiatori della crisi. Lo scorso aprile è emerso che Netanyahu aveva tentato, mesi prima, di silurare il direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, reo di aver rifiutato ordini politicamente motivati, tra cui quello di sorvegliare attivisti antigovernativi. Secondo quanto riportato dai media israeliani, Netanyahu avrebbe chiesto a Bar «lealtà personale» e non solo istituzionale. Il licenziamento era stato bloccato dalla Corte Suprema ma Bar ha comunque rassegnato le dimissioni che saranno operative a partire da giugno, a dimostrazione della convivenza ormai impossibile con il governo ultranazionalista guidato da Bibi.
Sul piano strategico, la “guerra silenziosa” tra Netanyahu e gli apparati di sicurezza si gioca anche attorno a una divergenza radicale di visione. Paradossalmente i vertici militari considerano necessario trovare una soluzione politica che includa anche una forma di amministrazione palestinese, eventualmente con il supporto internazionale. Netanyahu, al contrario, punta su una vittoria militare totale, senza concedere spazio ad alcuna autorità palestinese, e nel frattempo accarezza l’idea – mai ufficialmente dichiarata – di ricolonizzare parte della Striscia con nuovi insediamenti israeliani. Questo scenario, inviso agli alleati occidentali e giudicato impraticabile dall’Idf, continua tuttavia a trovare spazio nel discorso pubblico. Il ministro delle finanze Smodrich lo afferma con chiarezza: «Israele entra a Gaza per restarci».
Più volte negli ultimi mesi esponenti delle forze armate hanno fatto trapelare l’assenza di una cabina di regia unitaria, la mancanza di chiarezza nelle comunicazioni tra governo e comandi operativi, e la strumentalizzazione politica delle operazioni militari. Il rischio, paventato anche da analisti interni, è che Israele stia combattendo due guerre: una contro Hamas e una, più insidiosa, tra le sue stesse istituzioni.