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Da quando l’idea di un cambio di regime a Teheran non è più un tabù, è tornato a circolare con insistenza un nome ingombrante: quello di Reza Ciro Pahlavi II, figlio dell’ultimo Scià di Persia.
Uscito di scena nel 1979, all’alba della Rivoluzione islamica, non ha mai fatto ritorno in patria. Ma ha continuato, dall’esilio, a costruire un profilo da oppositore del regime teocratico. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche alla University of Southern California, Pahlavi ha intrapreso la carriera da pilota militare, arrivando a offrire i propri servigi all’aeronautica iraniana durante la guerra con l’Iraq. Un’offerta ovviamente rifiutata dal regime khomeinista, ma che segnò simbolicamente la sua volontà di non recidere il legame con il popolo iraniano.
Negli anni ha costruito un’attività politica parallela a quella dei gruppi di opposizione: più centrata sulla comunicazione, sulla promozione dei diritti umani e su un’idea di Iran post- teocratico fondato su principi repubblicani. Il suo sito personale, ricco di riferimenti ai valori della laicità e della sovranità popolare, è un manifesto contro la Repubblica islamica: inviti alla disobbedienza civile, richieste di referendum per determinare il futuro istituzionale del Paese, e soprattutto un’idea chiara di separazione tra religione e Stato.
Lui stesso ha ribadito più volte di non aspirare al ritorno della monarchia — pur senza rinnegarne il significato storico — ma di volersi mettere al servizio di una transizione politica. Non a caso, ha sempre rifiutato il titolo di Scià, preferendo quello di “cittadino iraniano in esilio”. Fino a tempi recenti, Pahlavi ha mantenuto una posizione ferma contro qualsiasi forma di intervento militare straniero per provocare un cambio di regime. Ha sempre sostenuto che la trasformazione dovesse venire dal basso, dal popolo iraniano. Ma la nuova fase aperta dal conflitto con Israele sembra aver accelerato i tempi e mutato i toni. Senza più escludere scenari in cui un collasso repentino del sistema lasci spazio a un governo provvisorio, Pahlavi si è detto pronto a mettersi a disposizione per guidare il Paese in un momento di transizione. «Sono pronto a servire l’Iran — ha dichiarato — se e quando il popolo me lo chiederà».
Il suo profilo, agli occhi di alcune potenze occidentali, appare rassicurante. È contrario al nucleare iraniano — che considera un rischio esistenziale sia per la regione sia per il futuro stesso dell’Iran — e si è espresso in termini duri contro l’uso strumentale della religione a fini politici. In uno dei suoi interventi più citati, ha ammonito: «I fanatici al potere, consapevoli che il loro tempo sta finendo, potrebbero cercare di chiudere la loro parabola con un gesto estremo. Anche un olocausto nucleare». Un’allusione cupa, che ha fatto breccia tra le diplomazie occidentali e ne ha rafforzato il ruolo di interlocutore.
Certo, la sua figura non è priva di ambiguità. L’eredità del padre — lo Scià Mohammad Reza Pahlavi — resta controversa. Se da un lato Reza Ciro ha sempre elogiato il progetto di modernizzazione, secolarizzazione e apertura all’Occidente del passato regime, dall’altro ha dovuto fare i conti con gli abusi e le repressioni compiute dalla famigerata polizia segreta, la SAVAK. In un’intervista, ha tentato un difficile equilibrio: «Sì, ci sono stati abusi. Ma non era politica di Stato. I prigionieri politici? Molti erano i futuri ostaggiatori dell’ambasciata americana, i mandanti degli attentati ai marines in Libano, o i dirottatori degli aerei civili». Una dichiarazione che cerca di contestualizzare, ma che non cancella del tutto il peso del passato. È proprio questa eredità, ambivalente, a rendere ancora incerta la sua candidatura a guida della nuova fase iraniana. Da un lato, rappresenta un’alternativa laica e ben vista a livello internazionale, capace di parlare tanto a Teheran quanto a Washington o Bruxelles. Dall’altro, il solo fatto di portare il cognome Pahlavi suscita sospetti e diffidenze, in una società che ha ancora ferite aperte e memorie vive.
Il futuro resta incerto, ma se il regime dovesse crollare — per pressione interna o per effetto della guerra — è plausibile che il nome di Reza Pahlavi emerga come una delle possibili soluzioni. Non per un ritorno al passato, ma come figura di garanzia in una transizione che si annuncia lunga, fragile e complessa. In un Iran che potrebbe trovarsi presto senza guida, senza istituzioni funzionanti e senza una visione comune, la sua presenza potrebbe servire, se non altro, a evitare il vuoto.