«L’Italia ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano».

È il 3 febbraio del 2015, Sergio Mattarella è stato appena eletto alla presidenza della Repubblica e pronuncia alle Camere il suo (primo) discorso di insediamento. Quando nomina Stefano Gaj Taché l’aula si alza e applaude.

Ma perché a distanza di tanti anni, addirittura decenni, un presidente della Repubblica si sente in dovere, non tanto o non solo, di ricordare la memoria di quel giovanissimo martire ma soprattutto di sottolineare che Stefano era un bambino italiano? Non è forse scontato? Evidentemente no, fino a quel giorno il piccolo Stefano, assassinato da un commando palestinese che il 9 ottobre dell’82 fece irruzione nel Tempio maggiore della sinagoga di Roma, era “soltanto” un bambino ebreo.

Ma facciamo un passo indietro, torniamo a quel giorno, alla mattina del 9 ottobre 1982. Il cielo di Roma è terso e il Tempio si va riempiendo pigramente: la comunità ebraica festeggia lo Shabbat e il Bar mitzvah per una decina di ragazzini che con quel rito antico entrano ufficialmente nell’età della maturità. Tra loro c’è anche il piccolo Stefano. È lì con sua madre e il suo fratellino. Stefano ha solo due anni e quel giorno neanche avrebbe dovuto esserci: «La sera prima - racconta la donna nell’imperdibile documentario di Giancarlo De Cataldo disponibile su Raiplay - mio padre mi aveva preso da parte per dirmi che i tempi erano difficili e che avrei fatto bene a non portare i due bimbi». Ma così non fu.

L’acciottolio dei credenti che percorrono la strada che conduce al Tempio e il brusio che scema pian piano non lascia dubbi: la cerimonia sta iniziando. Qualcuno, entrando, si chiede come mai quel giorno non vi fosse la solita pattuglia di polizia. È strano, molto strano, ma nessuno si prende la briga di contattare la questura per chiedere spiegazioni: è giorno di festa, è Shabbat, non può succedere niente con questo sole tiepido.

La prima granata esplode alle 11.55. È un boato improvviso. «Vidi un uomo riccio e dalla carnagione olivastra che guardava verso di noi e rideva», racconta anni dopo Maurizio Molinari.

Il direttore di Repubblica è ancora un giovane liceale e, come ogni sabato, è lì al Tempio insieme ai suoi amici. «Il sorriso dell’uomo dalla pelle olivastra - continua Molinari - si trasforma, diventa un ghigno, e dalla tasca della giacca spunta una granata che esplode all’ingresso di via del Tempio».

Il tempo si ferma. Nessuno capisce cosa stia accadendo. Il silenzio irreale è rotto solo dalla prima raffica di un mitra che spara ad altezza d’uomo. L’assalto durerà cinque lunghissimi minuti. La signora Taché tiene stretta la mano di Stefano e di suo fratello. Ma un proiettile la colpisce. Su di lei cala il buio, poi perde i sensi. Si riprenderà molte ore dopo in ospedale.

Appena sveglia chiede dei suoi figli: «Spero di riportartene almeno uno», risponde Elio Toaff, lo storico e carismatico rabbino capo che sa già la verità ed è esattamente dove è giusto che sia: accanto alla donna che ha perso il suo bambino. Già, Stefano è morto, Ma come è stato possibile quell’attacco di un commando palestinese che poi si scoprirà sarà da collegare al gruppo di Abu Nidal? Eppure in Italia, si saprà anni dopo, c’è il lodo Moro: un accordo segreto “siglato” tra la nostra intelligence e i terroristi palestinesi che permetteva loro di passare indisturbati nel nostro paese in cambio dell’inviolabilità dei nostri cittadini. Ma la riposta (non ufficiale) dell’uno e dell’altro, ovvero delle autorità italiane e dei leader palestinesi, è semplice e agghiacciante: il lodo Moro non è stato messo in discussione perché quel bambino, Stefano, è sì italiano ma prima ancora è ebreo.

Anni dopo interverrà anche l’ex presidente della repubblica, Francesco Cossiga, che sarà ancora più esplicito. Quell’attentato - spiegherà infatti a un giornale israeliano - rispettava in pieno il lodo Moro. La prova? Qualche ora prima dell’attentato erano stati fatti allontanare i poliziotti che vigilavano sulla sinagoga.

Insomma, l’Italia era stata avvisata, sapeva benissimo che quel giorno un commando palestinese avrebbe assaltato la sinagoga. Ma perché ha lasciato fare? L’unica risposta possibile è che la comunità ebraica romana era considerata una sorta di enclave israeliana. E abbiamo dovuto aspettare più di trent’anni, e il coraggio del presidente Mattarella, per dare cittadinanza a Stefano Gaj Taché, martire italiano del terrorismo internazionale.