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Ancora poche ore. Poi non ci sarà più nulla da fare. Poi il decreto sul carcere, quello più importante, sarà inghiottito dai marosi della legislatura gialloverde. Se nel Consiglio dei ministri convocato per domani non sarà fissato all’ordine del giorno il nuovo passaggio sulla riforma penitenziaria, cadranno nel vuoto le speranze dei detenuti e gli appelli dei giuristi. Il premier Paolo Gentiloni lo sa, pur nell’agitazione di queste ore ad altissima tensione per il suo partito.
Al momento la riunione del governo uscente, ancora in carica per gli affari correnti, non prevede formalmente l’esame del testo, nonostante il ministero della Giustizia abbia trasmesso a Palazzo Chigi gran parte della documentazione.
Serve un estremo atto di coerenza, a questo punto, per salvare le nuove norme sul carcere. A essere ormai appeso un filo è il provvedimento chiave, che fa cadere le preclusioni nell’accesso alle misure alternative e ai benefici tuttora previste dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Aperture senza le quali il principio del fine rieducativo della pena resterebbe sulla carta per un enorme numero di reclusi. Dal superamento delle “ostatività” sarebbero comunque esclusi mafiosi e terroristi, clausola che finora non è bastata però a vincere le remore dell’esecutivo e del Pd. Dopo essersi impegnato, poco meno di un mese fa, a dare l’ultimo via libera, lo scorso 23 febbraio Gentiloni aveva preferito congelare tutto e rinviare il sì decisivo a dopo le Politiche. Anche per scongiurare emorragie di consenso. Premura inutile, alla luce dello score riportato dai dem nelle urne. Ma adesso?
Adesso restano poche ore. Il motivo è tecnico, e semplicissimo. Lo schema di decreto è stato adottato nell’ormai ( politicamente) lontano 22 dicembre scorso. Le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno già formulato il loro previsto parere. Da Palazzo Madama la valutazione favorevole è stata espressa “con condizioni”: è stata subordinata ad alcune modifiche che, se accolte dal governo, limiterebbero fortemente l’accesso a benefici e misure alternative. L’esecutivo può anche non assecondare le remore dei senatori uscenti. Ma se vuole tirare dritto, deve trasmettere una risposta motivata alla commissione di Palazzo Madama e attendere altri dieci giorni: solo dopo quest’ultimo intervallo potrà emanare il decreto in via definitiva. Ora, l’iter deve fare i conti con un countdown, quello che conduce alla data in cui si riuniranno il le nuove Camere, cioè il 23 marzo. La commissione Giustizia uscente sarà formalmente sciolta nel giorno in cui arriveranno a Roma i nuovi parlamentari. Se si consumasse il passaggio tra le legislature, si dovrebbe dunque attendere l’insediamento delle nuove commissioni. Non solo: il nodo vero è che non si può escludere una soluzione della crisi di governo più rapida del previsto. E un esecutivo in cui gli azionisti di maggioranza fossero Di Maio, Salvini o tutti e due insieme, si farebbe addirittura vanto, di aver cestinato la riforma penitenziaria.
La strettissima via ancora percorribile impone dunque che le motivazioni con cui il Consiglio dei ministri intende respingere le modifiche chieste dal Senato ( dato ormai per acquisito che intenda respingerle) sia inviato a Palazzo Madama una decina abbondante di giorni prima del fatidico gong del 23 marzo. Domani o mai più.
Da Palazzo Chigi si apprende che sull’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, al momento, non ci sono certezze. Ma anche che gli uffici hanno già ricevuto da via Arenula le controdeduzioni ai rilievi mossi dal Senato sui commi 82, 83 e 85 del provvedimento. La documentazione sarebbe quasi pronta: serve però l’esame del pre- Consiglio, in cui di solito il “legislativo” della Presidenza si confronta con i tecnici del ministro proponente, in questo caso Andrea Orlando. Ma soprattutto, non ci sono certezze sulla volontà politica di Gentiloni.
Due giorni fa è stato rilanciato l’appello promosso alcune settimane addietro da Aldo Masullo e Luigi Ferrajoli, sottoscritto innanzitutto da giuristi come il presidente del Cnf Andrea Mascherin, il numero uno dell’Ucpi Beniamino Migliucci, i professori Giovanni Fiandaca e Valerio Onida, da magistrati del calibro di Edmondo Bruti Liberati e Armando Spataro. «Il cammino della riforma», si legge nel messaggio all’esecutivo, «rischia di avere una definitiva battuta di arresto: ci rivolgiamo con forza al Governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee». Un obiettivo per il quale Rita Bernardini ha fatto uno sciopero della fame lungo 32 giorni, seguita da qualcosa come 5.600 detenuti. Sulla cui pelle rischia di consumarsi la beffa postuma della politica.