Tra le migliaia di persone arrestate in Iran nel corso delle proteste di piazza che da tre mesi scuotono le fondamenta del regime, diciotto sono state condannate alla pena capitale con quattro sentenze già eseguite.

Quello che impressiona è il totale dispregio delle basilari garanzie degli imputati, con processi che le organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno definito delle autentiche farse, oltre alle torture che molti di loro hanno raccontato di aver subito in carcere. Il 7 gennaio scorso è stato giustiziato mediante impiccagione il ventiduenne Mohammad Mehdi Karami, appena sessantacinque giorni dopo il suo arresto.

La storia di questo ragazzo, una promessa del karate, è esemplificativa per comprendere l'aberrazione di questi procedimenti giudiziari in cui c'è in gioco la vita delle persone. Le autorità in Iran stanno infatti usando processi farsa per incutere paura nei manifestanti che chiedono la libertà e la fine del regime clericale.

Durante le udienze, a Karami, da quello che riportano i vari testimoni in incognito, sono stati concessi solo quindici minuti per difendersi dalla pena di morte. L'unica possibilità è stata quella di chiedere perdono anche se è stato acclarato che le sue confessioni sono state estorte. Il ragazzo era stato arrestato in relazione all'omicidio di un membro della forza paramilitare Basij durante le proteste nella città di Karaj, appena a ovest di Teheran, il 30 novembre 2022. L'accusa è stata quella di corruzione sulla terra che prevede appunto la morte per impiccagione, insieme a Karami c'erano altre sedici persone tra cui tre bambini.

Gli imputati hanno diritto a una rappresentanza legale in Iran, ma in casi delicati come questo, o in reati di spionaggio, non sono autorizzati a scegliere i propri avvocati. Invece il tribunale ne nomina uno da una lista approvata dalla magistratura. Ai giornalisti e ai membri della famiglia dell'imputato è vietato assistere alle udienze che non durano più di 15 minuti, quindi l'unica finestra su ciò che accade dietro le porte chiuse sono i filmati, palesemente manipolati dalle autorità.

Sui processi cala una cortina di silenzio visto che sugli stessi familiari delle vittime vengono esercitate forti pressioni affinché rimangano zitte. Così non ha fatto però il padre di Karami che ha rilasciato un intervista al quotidiano Etermad nella quale racconta delle parole del figlio e di ciò che aveva subito. Il campionario delle sevizie e terribile, dall’applicazione di elettrodi sui genitali alla continua minaccia di violenza sessuale.

Tramite l organizzazione 1500 Tasvir poi si e appreso delle altre torture inflitte, botte talmente forti da far perdere i sensi tanto che in un'occasione le guardie avevano pensato che fosse morto e avevano scaricato il suo corpo in una zona lontana dal carcere, ma andando via si sono resi conto che Karami era ancora vivo.

Secondo il sistema legale iraniano, quando un tribunale di grado inferiore emette una condanna a morte, la sentenza viene inviata alla Corte Suprema per l'approvazione. Ma anche se la pena capitale viene considerata appropriata, può ancora essere appellata. Per questo motivo il padre del ragazzo aveva cercato di contattare più volte l'avvocato nominato dallo Stato, ma non ha avuto mai risposta.

La stessa sorte toccata a Mohammad Hossein Aghasi, uno dei più importanti avvocati iraniani per i diritti umani che si è interessato alla sorte di Karami e dei suoi coimputati, quattro dei quali giustiziati. Aghasi ha scritto al tribunale locale e poi alla Corte suprema, tutte le sue lettere sono state ignorate. E anche la presentazione di un ricorso contro la decisione dell'Alta Corte è stato escluso dai giudici.