Alle 21.37 del 23 ottobre 1956 la gigantesca statua di Stalin che torreggiava al centro di Varosliget, il principale parco di Budapest, rovinò al suolo. Era alta nove metri ed era stata inaugurata cinque anni prima, il 21 dicembre 1951, per il genetliaco del compagno Stalin. I manifestanti avevano provato inutilmente a tirarla giù con le funi: fu necessario l'arrivo di una squadra di operai con le fiamme ossidriche. Restarono sul piedistallo solo gli stivaloni del Vohzd, il capo che in realtà non era ormai più tale neppure nel ricordo, avendo il nuovo segretario del Pcus Nikita Chruscev avviato qualche mese prima, nel XX Congresso del Pcus tenutosi in febbraio, la destalinizzazione. In quegli stivaloni di bronzo i rivoltosi infilarono una bandiera ungherese. Cominciava così la rivoluzione. Sarebbe stata annegata nel sangue meno di due settimane più tardi da 17 divisioni dell'Armata Rossa.Eppure all'origine dell'insurrezione c'era proprio quella destalinizzazione iniziata ben prima di trovare la propria formalizzazione nel rapporto segreto di Chruscev al XX Congresso. Per il nuovo gruppo dirigente sovietico, il segretario del partito ungherese e dal 1952 anche primo ministro Màtyàs Ràkosi, noto come "il miglior discepolo di Stalin", era più un nemico che un amico. Era quasi più stalinista dello stesso Stalin. Aveva copiato dal Vohzd la politica dell'industrializzazione forzata e dei piani quinquennali con risultati disastrosi, che avevano portato gli operai a odiare il regime comunista. Aveva perso clamorosamente le elezioni del novembre 1945, stravinte dal Partito dei piccoli proprietari, ma era lo stesso entrato in un governo di coalizione come vicepremier grazie al sostegno dell'Armata rossa. Il compagno di partito Lèszlo Rajk era diventato ministro degli Interni e capo della polizia segreta, la futura AVH. A sgombrare il campo da ogni rivale politico garantendo al partito la vittoria nelle elezioni del 1947 sarebbe stata proprio la polizia segreta, con metodi sanguinosi e spicci. Subito dopo la vittoria elettorale Rajk avviò una tra le più sanguinose purghe nei paesi comunisti, della quale, immancabilmente, finì anche lui vittima: accusato di aver cospirato con Tito e gli Usa, fu condannato al termine di un classico processo pubblico nell'ottobre 1949. L'ultimo urlo, sul patibolo, fu: "Lunga vita a Stalin".Nel luglio 1956 furono i sovietici, su consiglio dell'ambasciatore a Budapest e futuro segretario del Pcus Andropov, a defenestrare Ràkosi allontanandolo dalla segreteria con l'eterna scusa di una inesistente malattia. Tra i capi d'imputazione c'era anche il giudizio negativo del segretario sul Circolo giovanile Sandor Petofi, che Ràkosi considerava una minaccia, a differenza dei sovietici. Dal suo punto di vista aveva ragione il vecchio stalinista: proprio quel circolo avrebbe poi acceso la miccia della rivoluzione.Le oscillazioni sovietiche a proposito del "miglior discepolo di Stalin" rivelano oggi quanto profonda fosse l'incertezza di Mosca sulla strada da imboccare nella destalinizzazione. Il politburo lo aveva costretto, subito dopo la morte del Capo, a lasciare, se non la guida del partito, almeno quella del governo per cederla a Imre Nagy, comunista riformista sponsorizzato dal primo ministro dell'Urss Malenkov. Nagy, uno di quei comunisti convinti che "il marxismo non possa essere una scienza statica", si era rivelato però un po' troppo riformista. Lo stesso Malenkov lo aveva messo alla porta nel gennaio ?55 cacciandolo dal governo per richiamare Ràkosi e poi, a dicembre, anche dal partito.Ma allo stesso tempo i sovietici proteggevano il Circolo Petofi, licenziavano Ràkosi appena un anno dopo avergli restituito i pieni poteri, imponevano la riabilitazione di Rajk, ai cui funerali, il 6 ottobre, parteciparono 200 mila persone con la vedova al braccio del defenestrato Nagy, che una settimana dopo fu riammesso nel partito. E gli stessi sovietici, anzi lo stesso segretario del Pcus Chruscev, proprio nei giorni della rivoluzione ungherese cedevano a sorpresa nel durissimo braccio di ferro con la Polonia evitando un bagno di sangue che pareve imminente.La prima rivolta in un paese comunista dopo quella del 1953 a Berlino era scoppiata proprio in Polonia, a Poznan, il 28 giugno ?56. L'esercito polacco aveva aperto il fuoco su una immensa manifestazione di protesta operaia, uccidendo 57 persone. A dare l'ordine era stato un generale polacco ma di origine russa, come quasi tutti i principali ufficiali dell'esercito della Polonia. Nei mesi seguenti molti quadri e dirigenti dello stesso Partito operaio unificato polacco chiesero a più riprese di allontanare gli ufficiali sovietici e alla fine in ottobre decisero, senza chiedere il permesso a Mosca, di riabilitare e nominare segretario uno dei principali leader considerati dissidenti, Wladislaw Gomulka, reduce da cinque anni di carcerazione.Chruscev volò a Varsavia di corsa per impedire la nomina e ordinò ai carri armati di attestarsi sul confine. Gomulka schierò truppe fedeli attorno a Varsavia. Un attimo prima che la parola passasse ai cannoni Chruscev ingranò la retromarcia: «Trovare un motivo per un conflitto armato con la Polonia in questo momento sarebbe facilissimo, ma poi trovare il modo per concluderlo sarebbe difficilissimo», spiegò.La manifestazione del 23 ottobre a Budapest era stata convocata dagli studenti e dal Circolo Petofi proprio per esprimere la solidarietà a Gomulka, oltre che per presentare una lista di richieste che, sommate, avrebbero portato di fatto alla democratizzazione del Paese. Gli organizzatori avevano in mente una protesta, non un'insurrezione. Era stata la folla a ingrossare imprevedibilmente le file della manifestazione portandola in poche ore da 20mila a 200mila persone. Erano arrivati in massa gli operai, che già da mesi frequentavano il Circolo Petofi. Erano arrivati i militari, che si strappavano le mostrine prima di entrare nel corteo.L'insurrezione vera e propria scoppiò poco dopo l'abbattimento della statua di Stalin. Una delegazione di studenti entro negli studi della radio per leggere le proprie richieste. Non fu rilasciata. Il corteo attaccò la radio. Gli uomini dell'AVH aprirono il fuoco, gli insorti risposero. Il giorno dopo sparatorie e linciaggi di agenti erano già scoppiati in tutta l'Ungheria.Il partito reagì nominando Nagy primo ministro lo stesso 24 ottobre. Nel suo governo entrò anche il filosofo marxista Gyorgy Lukàcs. Alla segreteria del partito fu chiamato un altro dissidente, Jànos Kàdàr. In tutte le fabbriche si formarono consigli operai che chiedevano l'autogestione delle fabbriche e consideravano il partito esattamente alla stregua di un padrone di Stato. La filosofa Hannah Arendt dichiarò che in tutto il mondo c'era un solo Paese in cui esistessero davvero vere strutture consiliari operaie, quelle che i comunisti avevano invocato per decenni: l'Ungheria.I sovietici continuarono a manifestare massima indecisione anche dopo la rivoluzione. Ordinarono un primo intervento delle truppe di stanza in Ungheria già il 24 ottobre, ma non ci furono scontri e in alcuni casi le truppe fratenizzarono con gli insorti. Qualche scaramuccia ci fu nei giorni seguenti ma senza grande convinzione da parte dei sovietici e il 28 ottobre si arrivò a un cessate il fuoco. Due giorni dopo due tra i principali dirigenti del Pcus, Suslov e Mikojan, arrivarono a Budapest con una risoluzione che riconosceva la pari dignità tra il partito sovietico e quelli degli altri Paesi comunisti. Nello stesso giorno veniva uno dei principali dissidenti ungheresi, il cadinale Mindszenty.Guardando a ritroso è facile semplificare le cose immaginando un'insurrezione anticomunista che non poteva che essere schiacciata dall'Urss. La realtà è molto più sfumata. Nell'insurrezione c'erano sicuramente elementi totalmente anticomunisti, ma Nagy, Kadar e i consigli operai che erano la spina dorsale della rivoluzione combattevano per un comunismo capace di garantire libertà, indipendenza nazionale, pluralismo e vera giustizia sociale: un comunismo non sovietico. Il Pcus fu non era affatto granitico ma diviso e indeciso sino all'ultimo. Chruscev in persona avrebbe probabilmente preferito adottare anche a Budapest la linea morbida praticata in Polonia, puntando sul dialogo con Nagy.A tutt'oggi gli storici non sanno dire concertezza se l'invasione vera e propria del 4 novembre fu decisa dopo la scelta di Nagy di uscire dal Patto di Varsavia il primo novembre, e proprio in conseguenza di quell'annuncio esplosivo, oppure se, al contrario, l'invasione venne decisa il 31 ottobre e Nagy tentò il giorno dopo di giocare l'ultima carta sperando in un intervento dell'Occidente. Non è neppure chiaro se Chruscev decise l'invasione perché temeva la disgregazione del Patto di Varsavia qualora avesse ceduto o se la sua paura fosse invece quella di un'offensiva degli stalinisti guidati da Molotov, ancora molto forti soprattutto nell'esercito, se si fosse mostrato debole. E' probabile che la tragedia del novembre 1956 non fosse dunque scritta a priori e che si sia trattato invece della vera grande occasione perduta per uscire compiutamente dallo stalinismo e aprire una strada diversa per il movimento comunista di tutto il mondo.Non andò così. Il 4 novembre 200mila soldati sovietici invasero l'Ungheria con l'appoggio dell'aviazione e dell'artiglieria pesante. Kadar, che era corso a Mosca, fu messo di fronte a un ricatto secco: se non avesse accettato di guidare il Paese sacrificando Nagy sarebbero tornati al potere Ràkosi e i suoi stalinisti. Imre Nagy si rifugiò nell'ambasciata jugoslava. Ne uscì il 22 novembre con un salvacondotto firmato da Kadar che i sovietici (come lo stesso Kadar) considerarono carta straccia. Arrestato, fu condannato a morte e impiccato nel giugno 1958. Le roccaforti operaie, dove la resistenza fu più strenua vennero assediate e bombardate: nelle battaglie persero la vita 2652 ungheresi e 720 russi. Il 10 novembre i consigli operai si arresero.