«Questo è un posto speciale, avete visto quanti gruppi, quanti talenti, dappertutto nel mondo mi chiedono perché questa piccola città industriale è così e io gli rispondo sempre che non ne ho la minima idea: è così e basta». Ha ragione il leader degli Oasis Liam Gallagher; se vedi Manchester, il cielo plumbeo, la pioggia perenne, le periferie dismesse, la sua classe operaia tutta pub, freccette e football non ti capaciti di come possa essere una piccola grande culla del rock, della new wawe, del brit pop. È così e basta.

I profani credono che il tempio della musica britannica sia Liverpool, il “borgo selvaggio” dei Beatles, o Londra ( ma ad eccezione dei Clash e degli Who ben poche star sono nate nell'area metropolitana della capitale). Si sbagliano. A Manchester il rumore della musica sovrasta qualsiasi cosa, anche le bombe vigliacche che l'altra notte hanno falciato 22 giovani vite negli spalti dell’Arena. E continua a farlo pure se nell’ultimo decennio club celeberrimi come la Hacienda o il Twisted Weel sono stati rasi al suolo per fare spazio a comprensori di lusso, a hotel e centri commerciali.

Da qui viene la mitica etichetta indipendente Factory records di Tony Wilson e da qui vengono i grandissimi Joy Division di Ian Curtis ( e i successivi New Order), band culto del post punk proprio come i Buzzcocks, i Durruti Column e The Fall, o gli Smiths di Morrisey, la dance- rock degli Happy Mondays, il soul pop dei Simply Red, l’alternative rock degli Stone Roses di Ian Brown, precursori poi dell’ondata britpop che ha dato luce agli Oasis dei fratelli Gallagher. A dirla tutta a Manchester sono cresciuti anche i fratelli Gibbs, poi alla fine degli anni 50 i genitori emigrani in Australia dove sono artisticamente i Bee Gees.

Come non amare questo luogo di controcultura che negli anni 80 è stato meta di pellegrinaggi di appassionati di musica da tutto il mondo, una città dai due volti, depressa di giorno e che si accendeva la notte come un braciere, tra fiumi di birra e sciami di note suonate al massimo volume per dimenticare le miserie della disoccupazione e gli anni di Margaret Thatcher a Downing street, non proprio una beniamina di quella generazione smarrita.

Ma quel senso per il fragore, per l’intreccio di suoni per il canto corale viene da lontano, fa parte dell’ “anima” profonda di questa città incompresa. Sentite cosa scriveva il reporter Mick Middles nel lontanissimo 1849 per una gazzetta locale: «Per le strade risuonano continuamente le grida, gli urli, gli spergiuri della gente che si impastano con i suoni discordanti prodotti da una dozzina di gruppi musicali che provengono dalle finestre dei palazzi».

Chi volesse tuffarsi in un viaggio nella storia della Manchester dei club alternativi non può fare a meno dell’indispensabile Manchester Music City del giornalista musicale e cantante John Robb, che racconta la genesi e il fermento della new music nei sobborghi della città, ricordando come la più celebre trasmissione musicale della bbc, Top of the pop, vede la luce il primo gennaio 1964 proprio da Manchester, utilizzando una vecchia chiesa come studio televisivo: «Quel che spiega questo legame fatale tra la città e la musica è il desiderio di restare vivi, la gioia e l’energia della gioventù nonostante la povertà, la depressione, l’alcolismo, le fabbriche che chiudono, la disoccupazione». E non sarà certo la bomba vigliacca dell’altra notte a spezzare quel legame fatale.