Il suo stile può piacere o non piacere, e spesso non piace all’esercito di giornalisti che lo imita da decenni, ma che il senatore Augusto Minzolini abbia rovesciato come un calzino vecchio il modo di fare giornalismo politico in Italia nessuno si sognerebbe di negarlo. Non lo negarono del resto i curatori dell’enciclopedido Annale del lessico italiano che già nel 1996 inserirono la voce ' Minzolinismo': «Forma di giornalismo che si basa sulla raccolta di dichiarazioni anche informali di uomini politici, senza alcuna verifica delle affermazioni raccolte».

La seconda e velenosetta parte dell’enunciato era infondata. Minzolini, penna di punta della Stampa, scriveva quel che dai politici sentiva dire e che molto spesso gli dicevano: c’era ben poco da verificare. Casomai c’era da chiedersi quale perversa fascinazione spingesse la popolazione del Palazzo a confidarsi con Minzo pur sapendo benissimo che le loro parole sarebbero state puntualmente date in pasto al pubblico. E non, come usa oggi tra i fiacchi epigoni del ' minzolinismo' coprendosi dietro il prudente anonimato della fonte, con formulette tipo: «Dice una fonte molto vicina a...». Minzolini metteva sempre le parole in bocca a chi le aveva pronunciate, con tanto di nome, cognome ed eventuale incarico istituzionale, sfidando la smentita o la querela.

Il vero segreto della formula Minzo, in fondo, era semplice: rendere divertente e movimentato un lavoro che sino a quel momento non era andato molto oltre lo squadernare riflessioni, secondo il dettato di quella che si chiamava ' nota politica', e rendere altrettanto divertenti e realistiche quelle cronache per chi le leggeva. Minzolini lo criticavano tutti, ma lo leggevano tutti.

Aveva rubato tutti i segreti del mestiere a Guido Quaranta dell’Espresso, un pioniere, uno che non esitava a travestirsi da autista con tanto di berretto per intrufolarsi nelle assemblee riservate della Dc. Per questo all’inizio della carriera, negli anni ‘ 80, lo chiamavano ' Augusto Trentanove'. Col tempo l’allievo ha superato il maestro. Minzolini non esitava di fronte a niente. Macinava chilometri nel perimetro ristretto della cittadella romana della politica pur di strappare una dichiarazione in esclusiva. Si insinuava nel bagno delle donne della storica sede socialista del Psi in via del Corso: aveva scoperto che salendo sul water si sentiva tutto quel che si diceva nelle riunioni della Direzione. Si travestiva da inserviente per spiare le riunioni del gruppo dei deputati Dc. Conosceva a menadito la topografia di piazza del Gesù, sede nazionale dello scudocrociato: per nascondersi bisogna pur sapere dove farlo. Infatti lo trovarono dietro una tenda: colpa delle scarpe galeotte che spuntavano e tradivano. Se vedeva un politico salire in ascensore sapeva fiondarsi all’ultimo secondo per dribblare i colleghi e sfruttare da solo quei preziosi momenti a tu per tu. Alcuni dei colpi messi a segno in quegli anni comportavano un bel po’ di azione rocambolesca. Inseguire in motorino le macchine dei potenti era un’abitudine, ma se individuato gli toccava procedere a fari spenti nella notte. Fu così che, pedinando la macchina del presidente della bicamerale Massimo D’Alema fino a casa Letta, scoprì il celebre ' patto della crostata'. Con Cesare Previti il raccolto fu appena meno fruttuoso. Subito dopo la vittoria del Polo berlusconiano, nel ‘ 94, pizzicò il futuro ministro della Difesa al ristorante mentre intonava ' Faccetta nera' con i commensali.

Con Minzo, come ipnotizzati da un pitone, i politici si allargavano sino a confessare quel che mai avrebbero dovuto o voluto ammettere: lo fece il giornalista Fabrizio Del Noce appena entrato in Parlamento con Forza Italia, nel ‘ 94. Si parlava di un biglietto segretissimo consegnato a Berlusconi, fresco di prima vittoria, con l’indicazione di chi nominare per la direzione dei Tg. Del Noce si sbottonò alla grande: «Lo ho scritto io». Fece scandalo e il giornalista- deputato si giocò una presidenza di commissione. La prese con filosofia: «Non sono il primo a cascarci con Minzolini, e hanno abboccato politici ben più esperti di me».

Alludeva probabilmente a Luciano Violante. Poco prima campagna elettorale del ‘ 94 Minzolini gli aveva messo in bocca un’indiscrezione pesante a proposito di un’inchiesta per traffico d’armi e stupefacenti a carico di Dell’Utri. La Stampa pubblicò. Violante smentì ma si dimise da presidente dell’Antimafia. La faccenda finì in tribunale ma si risolse con un accordo: querela ritirata in cambio dell’affermazione, da parte del giornalista, che non si era trattato di un’intervista ma di una sensazione ricavata in un colloquio. Uno di quegli scambi che permette anche ai meno navigati di capire come erano andate le cose.

Almeno una volta la confidenza rubata andò clamorosamente in scena. Minzolini, per un programma tv, si fermava a parlare con i politici con un microfono nascosto nel bavero della giacca, mentre da lontano una telecamera riprendeva. S’imbattè in Berlusconi che, uscendo da Montecitorio, gli concesse un commento riservatissimo chinandosi precisamente sopra il microfono nascosto tanto per non farsi sentire da nessuno. Telespettatori a parte.

Se del caso, di fronte a politici troppo attenti a pesare le parole Minzolini non esitava a dare una spintarella. Capitò che in aereo l’allora segretario del Pds Occhetto insistesse nel tuonare contro i magistrati, a proposito di un presunto avviso di garanzia a suo carico che si vociferava fosse nell’aria, però senza allargarsi troppo. Il cronista s’improvvisò suggeritore: «Insomma sarebbe un golpe!». Il segretario confermò, o forse si limitò ad annuire. Finì con titolone del tipo «Un avviso contro di me sarebbe un golpe».

Come direttore del Tg1 Minzolini è stato coperto di nomignoli che alludevano al suo presunto servilismo, di solito pronunciati da giornalisti al confronto evanescenti. Accusa infondata. Una certa fascinazione nei confronti dell’uomo forte di turno è probabile, che si trattasse di Craxi, D’Alema o Berlusconi, è probabile che ci sia davvero. Quando seguiva D’Alema, nel momento del massimo fulgore del baffuto, Minzo studiava meticolosamente Sun- Tzu, avendo scoperto che era una delle letture preferite del leader dei Ds: «Impossibile capire D’Alema senza conoscere L’arte della guerra». Ma le posizioni spesso estreme assunte come direttore del Tg erano dovute tutte al carattere dell’uomo, non all’obbedienza agli ordini del sovrano che, al contrario, tentava invano di frenarlo.

Odiatissimo dalla sinistra, Augusto Minzolini viene invece proprio dalla sinistra. Al liceo Dante Alighieri di Roma era tra i leader della Fgci, regolarmente iscritto alla sezione del quartiere Prati. Ancora oggi c’è chi lo rivede, senza riconoscerlo, nel film di Nanni Moretti “Ecce Bombo”: è lo studente esaltato che vuole occupare la scuola a tutti i costi. Fu espulso, dal futuro ' medico in famiglia' Giulio Scarpati, perché nel frattempo aveva iniziato a lavorare con l’agenzia di stampa cattolica Asca. A Panorama approdò grazie a un servizio sulle barzellette sui socialisti e sulle loro mani lunghe che si guadagnò la copertina. Alla Stampa lo chiamò poi Ezio Mauro. L’Avvocato lo adorava. Lo chiamava spesso al telefono per chiedere brevi ragguagli sullo stato del Palazzo e offrire generose interpretazioni. Fu proprio lui, Gianni Agnelli, a convincerlo a diventare inviato dagli Usa: un incarico che Minzolini, animale da transatlantico come pochi, esitava ad accettare e amò pochissimo. A chi lo sentiva al telefono, in quei mesi, poteva capitare di sentirsi illustrare per filo e per segno, da New York, cosa era successo poco prima nello studio romano di Clemente Mastella.

Tra polemiche, accuse, processi, sentenze, voti parlamentari, su Augusto Minzolini continuano a diluviare articoli. Pochissimi sprecano inchiostro per segnalare che è stato ed è soprattutto un grande giornalista.