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Qualcuno la chiama “campagna elettorale a mezzo procura”. Si tratta degli avvisi di garanzia piombati sulla testa di candidati più o meno quotati a ridosso degli appuntamenti con le urne. Qualunque sia il livello della contesa - dalle Comunali alle Regionali, fino alle Politiche e alle Europee - nessuna competizione, in Italia, è stata risparmiata dalle entrate a gamba tesa delle procure. Che in alcuni casi, chiuse le urne con l’indagato di turno magari rimasto a casa perché ritenuto “impresentabile”, hanno poi fatto clamorosi passi indietro.
Anche l’attuale campagna elettorale, che vede Giorgia Meloni lanciatissima verso Palazzo Chigi, si è aperta con un’inchiesta, da subito definita dai membri di Fratelli d’Italia «giustizia ad orologeria» . È il caso dello tsunami giudiziario che a luglio ha decapitato la giunta di Terracina, facendo finire ai domiciliari la sindaca di FdI Roberta Tintari, accusata di reati di turbata libertà degli incanti e falso nella gestione dell'arenile comunale, poi tornata in libertà ad agosto in quanto la misura sarebbe stata «illegittima». Si tratterebbe di un piccolo assaggio, secondo chi si rifiuta di vedere nelle iniziative delle procure delle semplici coincidenze, di quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane. Anche perché la richiesta dei pm al gip era stata presentata il 23 febbraio del 2021, con la preghiera di applicare in via «urgente» le «misure cautelari coercitive» per «interrompere le condotte criminose».
Ma gli arresti sono arrivati due anni dopo, due giorni prima della caduta del governo Draghi. «Il modello Terracina evocato più volte da Giorgia Meloni come esempio di riscatto ed efficienza è stato infangato mentre il partito è in testa ai sondaggi, l'obiettivo era quello di sporcare un simbolo e di sporcare anche me, che in passato sono stato portavoce della leader di Fratelli d'Italia. È un'inchiesta ad orologeria? Le prove non le avremo mai, ma i fatti parlano chiaro», aveva commentato Nicola Procaccini, eurodeputato di Fratelli d'Italia coinvolto nella stessa inchiesta.
I casi sono tanti e molti anche eclatanti. E poco importa se il nome del personaggio destinatario di un avviso di garanzia - a volte a mezzo stampa, prima che per mano di un ufficiale giudiziario - sia o meno presente nelle liste dei candidati. Basta anche un fedelissimo, come Luca Morisi, creatore della “bestia” social che ha fatto la fortuna del leader della Lega Matteo Salvini, all’epoca affaccendatissimo con le Amministrative. Il guru della comunicazione del Carroccio era infatti finito nel mirino della Procura di Verona a settembre dello scorso anno, a pochi giorni dall’appuntamento alle urne, con l’accusa di cessione di stupefacenti. L’indagine finì con un’archiviazione «per particolare tenuità del fatto», ma quella tornata elettorale fu una stangata per la Lega, secondo cui il caso Morisi, reso pubblico dalla stampa, fu un modo per affondare Salvini. «È una vicenda meschina, attaccano lui per attaccare me», tuonò il leader del Carroccio.
Fu più fortunato Vincenzo De Luca, governatore della Campania riconfermato alla guida della Regione a febbraio 2021. La grana, casualmente, era scoppiata a due settimane dal voto, in programma a settembre 2020, un’elezione che i sondaggisti davano già in mano allo stesso De Luca, superfavorito con più di 10 punti di vantaggio sullo sfidante di centrodestra, Stefano Caldoro. La procura di Napoli gli contestava l’ipotesi di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa, ipotesi che, a pochi mesi dalla rivelazione di Repubblica - nonostante la notizia fosse ancora coperta da segreto -, venne archiviata. L’indagine era in corso da tre anni ma «lo straordinario scoop giornalistico», ironizzò il governatore su Facebook, venne reso pubblico solo a pochi giorni dal voto. «Nel frattempo si comunica che l'organizzazione dell'Ufficio di segreteria della Presidenza attuale, rispetto a quella precedente, ha comportato un risparmio di 84.000 euro l'anno - aveva evidenziato il governatore col solito piglio -. Buon lavoro a tutti. E per il resto, non perdere tempo e non farsi distrarre» .
A giugno scorso a finire nei guai era stato un altro candidato di centrodestra, in lizza come consigliere comunale a Palermo: si tratta di Francesco Lombardo, accusato di scambio elettorale politico- mafioso, arrestato a pochi giorni dalle elezioni per aver chiesto appoggio a Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, già condannato tre volte per associazione mafiosa. L’arresto fu annullato pochi giorni dopo e l’accusa derubricata a corruzione elettorale, ma Meloni non perse tempo a scaricarlo: «Ha fatto una cosa che per me è intollerabile in campagna elettorale - aveva commentato - per cui è giusto intanto che sia stata arrestato e poi ovviamente è giusto che noi lo sappiamo. Ci stiamo già costituendo come parte lesa perché chiaramente impatta molto su di noi l'ultimo giorno di campagna elettorale».
A maggio 2019 era toccato invece a Lara Comi, candidata di Forza Italia alle Europee e accusata di finanziamento illecito, accusa poi archiviata. «Su di lei un grande equivoco», la difese Silvio Berlusconi. Ma l’inchiesta aveva colpito anche altri esponenti del partito dell’ex presidente del Consiglio, come Pietro Tatarella, vicecoordinatore regionale lombardo di Forza Italia e candidato alle elezioni europee. A venti giorni dal voto, toccò anche il governatore leghista Attilio Fontana, accusato di abuso d’ufficio per un incarico al socio di studio Luca Marsico, rimasto senza posto in consiglio regionale. «Vergognosi attacchi all’uomo, all’avvocato, a un sindaco e a un governatore la cui onestà e trasparenza non sono mai state messe in discussione in tanti anni, né mai potranno esserlo oggi o in futuro», aveva tuonato Salvini. E anche nel caso del governatore l’inchiesta si chiuse con un’archiviazione, arrivata a marzo del 2020.
L’elenco è lunghissimo. E a volte la magistratura è intervenuta anche in momenti delicati per le compagini governative: è quanto accaduto nel 2021 con l’indagine su Lorenzo Cesa, all’epoca dei fatti segretario nazionale dell’Udc, accusa dalla procura di Catanzaro di aver favorito le cosche di 'ndrangheta. L’inchiesta si abbatté sulle trattative allora in corso per salvare il governo guidato da Giuseppe Conte. Il M5S, all’epoca, era a caccia dei cosiddetti “responsabili”, tentando di fare entrare in maggioranza anche i colleghi dell’Udc per non far naufragare l’esecutivo del capo politico grillino.
L’allora presidente del Consiglio, per sopperire all’uscita dalla maggioranza dei renziani di Italia viva, aveva trovato un accordo con i tre senatori democristiani Antonio De Poli, Antonio Saccone e Paola Binetti, con il benestare del segretario Cesa. Che una volta ricevuto l’avviso di garanzia si ritirò da qualsiasi trattativa, facendo naufragare quel tentativo e spianando la strada al governo Draghi. «Ho ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017 – disse Cesa –. Data la particolare fase in cui vive il nostro Paese rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale con effetto immediato». Mesi dopo, l’accusa finì nel cestino, su richiesta della stessa procura, e Cesa fu scagionato. Ma ormai tutto era cambiato.