Nicolás Maduro col cappello in mano sulla Piazza Rossa. E’ sempre a Mosca che il presidente venezuelano si precipita quando è a corto di cash e di protezione politica. Lì trova ancora un Vladimir Putin a braccia aperte che lo accoglie.

Nel gennaio scorso, quando Washington ha imposto sanzioni efficaci alla vendita di petrolio raffinato venezuelano, l’impresa statale russa di petrolio Rosneft s’è mobilitata per moltiplicare le esportazioni di barili venezuelani nel mercato asiatico. Due mesi dopo, quando le voci su una possibile precipitazione armata dell’eterno conflitto venezuelano s’erano fatte più insistenti del solito, due aerei con a bordo tecnici militari russi sono spuntati sulla pista dell’aeroporto Simon Bolívar, l’aeroporto internazionale di Caracas.

Il pronto soccorso russo è scattato anche il mese scorso. Messo alle strette da una crisi interna che non dà tregua, Maduro è volato a Mosca. A «rafforzare i legami con i nostri amici russi» ha detto. E così è stato. Sono stati confermati e rinnovati i numerosi «protocolli di collaborazione reciproca in materia di difesa ed energia», espressione assai vaga che sottintende in realtà iniezioni di cash russo in cambio della svendita del poco rimasto in Venezuela da vendere in cambio di dollari. Petrolio compreso.

E’ più interessata che generosa la disponibilità all’appoggio politico e finanziario che Mosca continua a garantire al regime chavista. Ma resta pur sempre una preziosa sponda per il regime chavista che annaspa in una crisi senza fine, restando a galla almeno per adesso.

Maduro ha ufficializzato nel suo viaggio la decisione di trasferire la sede europea della petrolifera statale Petróleos de Venezuela ( Pdvsa) da Lisbona a Mosca, nella speranza di aggirare così almeno in parte eventuali sanzioni europee contro il regime venezuelano.

Pdvsa ha confermato che la sede di rappresentanza è aperta e una nuova società è stata già iscritta nei registri pubblici. Compare con data di nascita 6 agosto 2019 come compagnia che offre servizi di consulenza in commercio e gestione per il business di petrolio e gas. Nella nuova società c’è anche capitale cubano per il 2%.

Putin a Caracas ha da curare interessi russi pubblici e privati ( oltre sessantamila milioni di dollari già investiti solo nel petrolio).

I capitali russi in Venezuela sono cresciuti molto discretamente dopo l’arrivo di Chávez al potere nel 1998. C’è denaro russo ovunque. Dal 2008 esiste un consorzio di imprese petrolifere russe ( Rosneft, Lukoil, Gazprom Neft, Tkk- Bp e Surgutneftegaz) per fare affari in Venezuela. Dal 2010 il consorzio ha creato “Petromiranda”, una jointventure dal capitale per il 40% russo e per il 60% venezuelano, per utilizzare l’area petrolifera Junin 6. Il consorzio l’ha creato Igor Sechin, ex Kgb, direttore della russa Rosneft. Spedito da Putin ai funerali di Chàvez insieme a Serguéi Chémezóv, altro veterano del Kgb, direttore della corporazione russa Rostechnologia per l’esportazione della tecnologia militare russa.

Interlocutore interessante per Putin, per cercare equilibri ed evitare conflitti inopportuni nell’esplosivo dossier venezuelano, è stato l’ex segretario di stato Rex Tillerson, finché è durato il suo incarico, conclusosi a fine marzo dell’anno scorso. Tillerson, prima della chiamata di Trump, era l’amministratore delegato della ExxonMobil.

Prima di cambiare assetto, nel 1972, la Exxon era la Standard Oil del New Jersey. A Caracas operava attraverso una filiale locale, la Creole Petroleum Corporation, nazionalizzata nel 1976. Quando, vent’anni dopo, il Venezuela decise la apertura petrolera, ossia l’ingresso del capitale internazionale negli affari petroliferi e permise così il ritorno delle compagnie straniere, tornò anche la Standard Oil che nel frattempo era diventata ExxonMobil e puntava alla riserva di petrolio più grande del mondo, quella della fascia del fiume Orinoco.

Nel 2007 l’allora presidente Hugo Chávez decise di permettere l’estrazione in Venezuela solo alle compagnie disposte ad accettare di formare imprese miste con lo stato venezuelano, che mantiene sempre almeno il 51% del capitale ( scuola cubana: così l’Avana fece, e fa tuttora, quando fu costretta ad aprirsi ai capitali stranieri per sopravvivere alla crisi causata dalla fine del flusso ininterrotto di mantenimento economico da parte di Mosca dopo il crollo dell’Urss). Accettarono il nuovo assetto tutte le società presenti, tranne la Conoco- Phillips e la ExxonMobile che ricorsero a giudizi internazionali. Exxon chiese un indennizzo di diecimila milioni di dollari. Alla fine di una buffa trattativa ne ottenne uno da mille milioni di dollari.

L’area dove maggiori speculazioni russe continuano ad avvenire, anche ora che il Venezuela è allo stremo, continua ad essere quella dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas. L’Orinoco è una sorta di pozzo senza fondo. Inimmaginabile la sua ricchezza, considerata dai dipartimenti esplorazione delle multinazionali del petrolio quasi infinita.

Ciò nonostante Maduro ha ottime ragioni per preoccuparsi. In altre aree di investimento economico che non siano quelle strettamente legate al petrolio gli investimenti russi negli ultimi mesi hanno registrato una frenata. Banche private, export agricolo ed anche fabbricanti di armi in arrivo da Mosca sembrano esitanti, spaventati che il collasso economico venezuelano possa essere tale da bruciare i loro profitti. Nei primi quattro mesi di quest’anno, secondo i dati della dogana russa, sono stati esportati da Mosca a Caracas prodotti per 36 milioni di dollari. Tanti, ma un terzo di quanti se ne esportavano mediamente in un trimestre solo tre anni fa. E anche i mitologici invii di grano russo al Venezuela, che secondo la propaganda chavista avrebbero dovuto abbondantemente rimpiazzare quelli non più acquistabili negli Stati uniti, sono diminuiti in realtà di un 60%. Solo 170mila tonnellate, un decimo del fabbisogno del Venezuela, paese fertilissimo con un clima perfetto per coltivare quasi tutto, nel quale ormai non si produce più niente. Non che prima della rivoluzione chavista si producesse molto a parte il petrolio, sempre di import ha vissuto Caracas.

Ma prima con i soldi del petrolio il Venezuela poteva permettersi di comprare tutto, anche quello che avrebbe potuto benissimo produrre da sé.