Come ha detto con sorprendente levità Matteo Salvini commentando le condizioni della maggioranza gialloverde dopo le votazioni al Senato sulla Tav, «qualcosa si è rotto» anche nei rapporti fra i grillini e i “dorotei” del Pd, come io chiamo - e vi spiegherò perché quelli che da qualche tempo coltivano più o meno apertamente la speranza di potersi inserire nelle tensioni fra grillini e leghisti per aiutare i primi a fare a meno dei secondi, sostituendoli col maggiore partito della sinistra.

Nelle votazioni parlamentari sulla realizzazione della linea ferroviaria per il trasporto ad alta velocità delle merci dalla Francia all’Italia il Pd si è ritrovato non con i grillini ma con i leghisti. E ben poco sarebbe cambiato se i nuovi “dorotei” fossero riusciti a strappare al loro partito la decisione di disertare tutte le votazioni per non confondersi, appunto, con i leghisti. La mozione grillina per un no alla Tav formalmente attribuito al Parlamento e non al governo, nello specioso tentativo di lasciare fuori dalla contesa il presidente del Consiglio schieratosi per il sì, sarebbe stata ugualmente bocciata.

A salvare i rapporti fra i “dorotei” del Pd e i grillini difficilmente basterà il rammarico espresso per la gestione del passaggio parlamentare dall’ex capogruppo del Pd al Senato e ora tesoriere del partito, Luigi Zanda. Che rappresenta la corrente di Dario Franceschini nella delegazione incaricata recentemente dalla direzione del partito di seguire gli sviluppi della situazione politica nella speranza di una crisi.

I “dorotei” piddini hanno dovuto ingoiare non solo la partecipazione alle votazioni, ma anche una modifica, all’ultimo momento, della mozione del loro gruppo, a favore della Tav, per consentire ai leghisti di approvarla interamente. E’ stato eliminato, in particolare, un passaggio polemico verso il governo, che avrebbe comportato la votazione del documento per parti separate.

Ma perché chiamo “dorotei” i piddini favorevoli, pur con varie sfumature o modalità, ad un’intesa con i grillini, con o senza la condizione di un preventivo passaggio elettorale? Che è stata posta dal segretario del partito Zingaretti nel tentativo di ridurre le tensioni interne e di scongiurare il disegno di una scissione attribuito, a torto o a ragione, a Matteo Renzi.

I “dorotei”, dal nome della santa protettrice delle suore nel cui convento si riunirono a Roma, nacquero come corrente della Dc nel 1959 per rivolta contro Amintore Fanfani, formalmente accusato di volere correre troppo verso i socialisti, superando il centrismo degli anni degasperiani, ma in realtà inviso per una certa bulimia di potere. Essa era stata avvertita nella decisione presa dal segretario della Dc, dopo il successo elettorale del 1958, di fare anche il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri.

A dimostrare che l’elemento distintivo dei “dorotei” fosse il potere, da conservare e insieme distribuire equamente fra di loro, e non la linea politica, fatta di programmi e di alleanze in un partito a maggioranza relativa e non assoluta, fu il fatto che Aldo Moro, chiamato a succedere a Fanfani alla guida dello scudo crociato, non ripudiò per niente le aperture ai socialisti. Fu lui, anzi, a completare l’operazione politica di Fanfani con una più accorta gestione realizzando personalmente nel 1963 il primo governo di centro- sinistra “organico”, a partecipazione cioè dei socialisti, al posto dei liberali dei governi centristi e in aggiunta ai socialdemocratici e ai repubblicani.

Nonostante si fosse guardato bene, visti i precedenti di Fanfani, dal cumulare troppe cariche lasciando la segreteria del partito all’amico di corrente Mariano Rumor, anche Moro finì per essere sospettato di volere rimanere troppo a lungo, e a tutti i costi, sulla scena da protagonista. Gli fu rimproverato dai colleghi di corrente di essere troppo aperto e tollerante con i socialisti, che pure non erano ancora quelli guidati dal volitivo e giovane Bettino Craxi, ma dall’anziano Pietro Nenni, e di averne anche favorito l’unificazione con i socialdemocratici. Di cui nella Dc temevano di fare le spese elettorali nel 1968, al rinnovo delle Camere.

Nonostante l’unificazione socialista fosse sostanzialmente fallita nelle urne, e destinata a dissolversi rapidamente anche a livello organizzativo, i “dorotei” pretesero dopo le elezioni la rimozione di Moro da Palazzo Chigi. Dove, pur di insediarsi al suo posto, Rumor offrì ai socialisti una edizione del centro- sinistra “più incisiva e coraggiosa”. Che tuttavia non bastò al Psi non più unificato, che reclamò poco dopo “equilibri più avanzati” ancora: tanto avanzati che il centro- sinistra non resse alla prova e si dissolse nelle emergenze della “solidarietà nazionale” col Pci e del terrorismo. Si passò negli anni Ottanta al “pentapartito”, comprensivo di liberali e socialisti, grazie alla svolta socialista di Craxi.

Ditemi voi, con questi precedenti, se sbaglio, o sbaglio più di tanto, a considerare “dorotei” quelli che nel Pd inseguono i grillini pur di recuperare il potere perduto con la sconfitta elettorale dell’anno scorso.