Quando tra agosto e settembre è nata questa maggioranza e si sono create le condizioni per il Conte 2 in molti abbiamo salutato la ritrovata centralità del Parlamento. Una crisi politica nata in spiaggia entrava al Senato in un percorso istituzionalmente corretto voluto dal presidente del Consiglio. E, sempre tra Montecitorio e Palazzo Madama, si ponevano le basi per il nuovo esecutivo. Nonostante il coro stonato di chi – tra piazza, Aula e colonne dei giornali – ha gridato ( incomprensibilmente) al ribaltone e all’inciucio, il Parlamento si è ripreso il ruolo che la Costituzione stabilisce. Finalmente. Sembrava l’inizio di una stagione nuova. Sembrava.

Una manciata di settimane dopo con l’iter di approvazione della legge di bilancio ci ritroviamo a raccontare l’ennesima mortificazione di Camera e Senato. Una storia che abbiamo iniziato a comporre nella stagione di Tangentopoli con la politica piegata dalle inchieste e man mano arricchito negli anni con una lunga sequenza leggi elettorali, che, con la regola delle liste bloccate ( listoni o listini che siano), hanno ridotto la possibilità dei cittadini di scegliere deputati e senatori. A sceglierli, al posto degli elettori, il capo politico di turno con il metro della fedeltà e non della competenza.

Accanto a questo, poi, c’è stato e c’è l’uso e l’abuso dei decreti legge da parte dei governi che si sono susseguiti e che hanno limitato il potere legislativo delle nostre Camere. Senza contare la retorica populista contro la professionalità del politico ( povero Max Weber), il richiamo all’uomo nuovo che sostituisce i politici ( Berlusconi) o li rottama ( Renzi) e, infine, lo stantio refrain sulla “destra e la sinistra che non esistono più” ( Grillo): quattro letture della politica che hanno progressivamente minato l’autorevolezza dei parlamentari.

Il doppio voto di fiducia sulla legge di Bilancio con un due soli passaggi parlamentari – è la quarta volta che accade nella storia della Repubblica – è un’ulteriore forzatura del dettato costituzionale e una nuova lesione delle prerogative del Parlamento. Rispetto al passato, poi, manca l’alibi dell’emergenza politica: nel 2010 il governo Berlusconi appena indebolito dalla scissione di Gianfranco Fini fu costretto ad accelerare tempi e procedure, così come nel 2011 quando il governo Monti, insediatosi da poche settimane, doveva fronteggiare la crisi sui mercati finanziari; infine nel 2016 quando, all’indomani della sconfitta al referendum, in pieno dicembre ci fu l’avvicendamento a Palazzo Chigi tra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

Una debolezza che si perpetua anche oggi nonostante al governo ci sia quello stesso Pd, che, giusto 12 mesi fa, aveva invocato l’intervento della Corte costituzionale a tutela delle prerogative delle Camera per il forcing imposto dal governo gialloverde alla manovra. Una manovra, peraltro, che arrivò in Aula in ritardo dopo essere stata ampiamente rimaneggiata da Bruxelles.

Si potrebbe derubricare tutto questo a un eccesso di formalismo, a un’attenzione esagerata alle procedure. Ma sarebbe sbagliato. Ferire il Parlamento significa ferire la democrazia e una democrazia ferita rischia di aprire la strada a pericolose scorciatoie. Anche le piazze di questi mesi pacificamente invase dalle sardine chiedono alla politica un cambio di passo, di riscoprire il valore del confronto democratico, di tornare a mettere al centro il dialogo e non lo scontro. E questo può avvenire solo in un Parlamento riconsegnato alla sua funzione, al suo ruolo e rinvigorito da una ritrovata autorevolezza.

Archiviata la manovra le forze politiche apriranno, necessariamente con maggiore convinzione, il capitolo legge elettorale. Dopo i pasticci e le sgrammaticature costituzionali del passato sarebbe opportuno un supplemento di riflessione che sappia restituire dignità, forza e peso politico al Parlamento. Va chiusa la stagione delle liste bloccate, va restituito ai cittadini il diritto di indicare i propri rappresentanti e rimessi al centro della politica Camera e Senato come previsto dalla Costituzione. Per farlo serve una classe politica capace di andare oltre l’interesse immediato, leader capaci di rinunciare a un pezzo del loro strapotere nei partiti e anche una società civile pronta a essere protagonista. E’ la sfida del 2020.