Nella puntata di Agorà Estate Rai3, intervistato sul tema dei soccorsi ai migranti, padre Mussie Zerai ha affermato: «Ho raccontato più volte delle costrizioni che gli scafisti attuano contro i migranti nei capannoni presenti sulle coste libiche. A quelle persone interessa solo incassare i soldi e poi liberarsi di quelle persone per far posto ad altre. Ho il timore di essere stato strumentalizzato, ma non posso far altro che provare a salvare le vite di chi mi chiama». Usa parole forti il sacerdote eritreo, fondatore dell’agenzia Habeshia e punto di riferimento soprattutto per i migranti che si spostano dal Corno d’Africa. È noto per essere colui cui i profughi che fanno i viaggi della speranza mandano sos o telefonano, quando le imbarcazioni a bordo delle quali si trovano sono in difficoltà. Per molti il suo numero di telefono, inciso sulle stive delle carrette del mare o sulle mura delle carceri in Libia, è stato l’appiglio estremo. Il suo nome è tornato alla ribalta a causa di una indagine della procura di Trapani che lo accusa di mandare messaggi alla ong Jugend rettet per indicargli i migranti che rischiano di naufragare. Eppure lui non ha mai nascosto di avvisare alcune ong della presenza in mare di barconi di profughi bisognosi di soccorso. Lo fa da anni. Prima di tutto avvisa la Guardia costiera italiana, poi l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, quindi alcune organizzazioni non governative che hanno imbarcazioni nel Mediterraneo.

Sulla diminuzione delle partenze dei migranti dalla Libia negli ultimi 30 giorni il prete, che continua ad avere contatti telefonici e via social media con i migranti, si è fatto un’idea precisa e non ha nulla a che fare con il codice di condotto per le ong voluto da Minniti. «Da quanto mi viene raccontato – spiega in una intervista del giornale L’Avvenire - è l’effetto combinato di due accordi. Le coste sono pattugliate e bloccate sia dalla guardia costiera tripolina, fedele al governo Serraj, e che da quella di Tobruk che risponde al generale Haftar.

Ma pochi parlano del blocco effettuato a sud dalle tribù che in aprile hanno siglato a Roma il patto con il ministro Minniti. I profughi finiscono in oltre 50 centri di detenzione aperti per imprigionare decine di migliaia di persone. La maggior parte proviene dall’Africa occidentale, quelli provenienti dal Corno saranno in questo momento 15 mila al massimo».

Infatti in Libia non esistono centri di accoglienza, ma vere e proprie prigioni dove rinchiudere i migranti. In Libia, la sicurezza è precaria, le condizioni di vita sono difficili e la violenza è ordinaria. Il paese è lacerato da conflitti, dato che le milizie continuano a combattere tra loro o contro le forze governative. Regioni diverse sono controllate da milizie contrapposte che creano ognuna le proprie regole, controllano i valichi di frontiera e detengono i migranti per sfruttarli. L’Unicef ha intervistato le donne trattenute in centri di detenzione nella Libia occidentale e hanno riferito di condizioni difficili, come alimentazione e servizi igienici insufficienti, significativi sovraffollamenti e mancanza di accesso ad assistenza sanitaria e legale.