di Antonio Leo Tarasco* Lo schema d’attacco italiano al Corona virus finora seguito è un modello o un fallimento? A un mese dall’emanazione del primo provvedimento con cui il governo ha cominciato a fronteggiare l’emergenza da Corona virus (è del 23 febbraio scorso il varo del decreto legge n. 6), è tempo di bilanci. Quattro decreti legge in un mese (i Dl 6, 9, 11, 14), tre decreti del Capo del governo (i dpcm dell’8, del 9 e del 22 marzo) non hanno né bloccato l’emergenza epidemiologica né sono stati utili a far intravedere l’atteso “picco”, cioè la punta di massima espansione degli effetti del contagio a seguito del quale vi possono essere solo diminuzioni di infetti e, quindi, di morti, ricoverati e di pazienti in terapia intensiva. E se è vero che l’aumento della temperatura atteso per la primavera-estate non sarà in grado di segnare automaticamente la morte del virus e che un vaccino potrebbe essere pronto solo a fine anno (quando il virus potrebbe essere morto per cause, diciamo, naturali), bisogna seriamente interrogarsi sull’efficacia delle misure tecniche messe a punto dal governo (e, al momento, solo da questo, non essendo il Parlamento coinvolto in alcuna decisione, se non in sede di conversione dei decreti legge già emanati dall’Esecutivo). Chiusura della stragrande maggioranza delle attività commerciali, sostanziale divieto di circolazione interno e internazionale, divieto di assembramento, di attività sportive, qualunque sia il luogo in cui queste vengano praticate, telelavoro imposto a tutti i dipendenti delle poche aziende, pubbliche e private, ancora aperte, hanno funzionato? Può risolversi tutto con la quarantena degli infettati, l’isolamento sociale dei “sani” (o presunti tali) e la condanna morale (e penale) di coloro che non rispettano il mantra nazionale dell’ Io resto a casa? Ad oggi, tutti i dati sembrano dimostrare l’esatto contrario: crescono i contagiati, i morti (che hanno superato quelli della Cina), i pazienti in terapia intensiva, e la autentica tragedia delle province di Brescia e Bergamo non si accenna ad arrestare. E poiché dopo il dpcm del 22 marzo ci sarà poco altro da chiudere (a meno che non si voglia, per una polmonite virale che statisticamente colpisce la minima parte della popolazione, far morire di stenti tutti gli italiani) o si prende atto del fallimento della strategia finora seguita o si rischia di continuare ad andare avanti così almeno fino a Ferragosto. Ma a quel punto anche la proverbiale pazienza degli italiani, la minaccia delle sanzioni penali, la militarizzazione delle strade, potrebbero non bastare più. Qui non è in discussione la serietà dell’impegno, lo spirito di unità delle forze politiche e la leale collaborazione tra tutti i livelli di governo (magari si assistesse sempre a questo clima di fantastica complicità e spirito di servizio), quanto la idoneità delle misure messe in campo che consistono, essenzialmente, nella importazione dello schema cinese senza… la dittatura cinese (che già mai è augurabile importare in Italia: meglio la polmonite virale). Il primo errore commesso è stato seguire le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (veicolate dal professor Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza) di effettuare i tamponi esclusivamente sui soggetti sintomatici. Questo ha determinato due conseguenze nefaste. In primo luogo, il mancato arresto dei contagi e l’espansione del numero degli infetti. Se il tampone viene effettuato solo a soggetti sintomatici, tra questi vi è un’alta probabilità di “stanare” i pazienti infetti. Ma gli altri? Gli asintomatici o, come amano dire i virologi, i pauci-sintomatici? Anch’essi sono contagiati che – anche se stanno bene – possono ulteriormente infettare. Per loro si sarebbe dovuto prescrivere la quarantena (il cosiddetto lockdown). Non averlo fatto ha consentito al virus di diffondersi. Certo, si può obiettare, se tutti stanno a casa, il problema non si pone. Sbagliato, poiché gli infetti inconsapevoli, anche se stanno a casa, possono ulteriormente contagiare e comunque possono doversi recare al lavoro e contagiare a loro volta. Ed in ogni caso, dal 22 febbraio ad oggi, grazie agli infetti inconsapevoli, il virus è riuscito a propagare magnificamente in Italia, e ciò sia in aree già al collasso (Lombardia) che in altre in origine incontaminate. Questo spiegherebbe il mancato arresto del virus e della sua espansione inarrestabile. Vi è, poi, una seconda nefanda conseguenza, non inferiore alla prima: gli effetti statistici. Poiché le percentuali sono dei rapporti, se al numeratore poniamo i morti e al denominatore i soli contagiati noti, la percentuale statistica che ne deriva è molto alta se si sono analizzati solo i “sintomatici” ma sarebbe di gran lunga inferiore se inserissimo al denominatore tutti i pazienti affetti realmente da Covid-19 ma che non presentano sintomi. In tal caso, il cosiddetto tasso di letalità scenderebbe di gran lunga. E anche le misure di politica pubblica da adottarsi potrebbero essere differenti: magari più drastiche in alcune aree ma più leggere in altre (e, dunque, più compatibili con una vita quasi-normale). Inoltre, riuscire ad individuare tutti i pazienti realmente affetti da Corona virus attraverso l’estensione dei tamponi avrebbe consentito, in un Paese tecnologicamente evoluto (quale non è l’Italia) di tracciare i pazienti e ricostruirne gli spostamenti precedenti e successivi. In tal modo, da un lato si potrebbero evitare successivi contagi e dall’altro si potrebbe, a ritroso, ricostruire la rete di contatti avuti da costoro e così effettuare anche su tali soggetti i tamponi mirati (e non a tappeto, alla cieca, sull’intera popolazione italiana). Ciò avrebbe comportato la necessità di analizzare i cosiddetti big data, creare e diffondere tra le autorità sanitarie “app” di tracciamento degli spostamenti dei contagiati. La protezione dei dati personali è già ampiamente (e a giustissima ragione) derogata dall’articolo 14 del decreto legge 14/2020; e va ricordato, poi, che la disciplina sulla privacy è in funzione dello sviluppo della persona umana che è a rischio anzitutto se sussistono minacce alla sopravvivenza. Giganti del web come Google e Facebook spiano costantemente le nostre abitudini per scopi solo commerciali; avrei preferito che a “spiarci” fosse stata la Protezione civile per difendermi dal rischio di infezione di una polmonite virale potenzialmente mortale. Comportandosi diversamente dagli italiani, i coreani (quelli democratici del Sud e non quelli capeggiati da Kim Jong-un) sono riusciti a contenere la curva dei contagi attraverso tamponi selettivi, controllo a distanza degli infetti, analisi dei big data: solo 8.652 infetti e 92 morti contro i 47 mila contagiati italiani e i 4.032 morti (dati comparati al 20 marzo). E dire che oltre a indubbie similitudini di geografia umana, i due Paesi hanno vissuto analoghe vicende epidemiologiche per 14 giorni; dopodiché la curva dei contagi italiana si è impennata mentre quella coreana si è stabilizzata. Cosa fare, ora, dunque? Certamente non potremo festeggiare la Pasqua come l’anno scorso o partecipare al “concertone” del 1° maggio a piazza San Giovanni, a Roma; ma credere che il mantra nazionale “Io resto a casa” da solo possa bastare è pia illusione, a meno di non voler attendere altri 6 mesi, chiudersi a casa anche a Ferragosto, ed assistere (impotenti) all’implosione del sistema sanitario nazionale. Giunti a tal punto, dopo preziose settimane in cui aerei da e per la Cina si sono lasciati liberi di partire ed arrivare e in cui tutti i contagiati inconsapevoli sono stati lasciati liberi di contagiare altre persone, occorre affiancare alla sospensione dei diritti costituzionali (ora, purtroppo, inevitabile) un’attività di intelligence sanitaria: estendere i tamponi, individuare tutti i contagiati isolando tutte le persone infette (sintomatici e non), raccogliere e analizzare tutti i dati, rendere pubblici i movimenti dei malati attraverso la tecnologia Gps e telecamere di sorveglianza, informare i cittadini del rischio-contagio prossimo, far funzionare la telemedicina a supporto della medicina in presenza. Solo così si potrà ridurre la pena a 60 milioni di italiana, salvando libertà e vite umane. Diversamente, sarà un’ecatombe, per gli italiani, la sanità e… il governo Conte. Oggi, l’Italia è chiusa. La produzione è per la massima parte ferma. Gli uffici pubblici sono virtualmente aperti per garantire un minimo di presidio. Ma questo blocco, nonostante le rassicurazioni dei seguaci keinesiani, non potrà essere rivitalizzato da pure iniezioni di liquidità finanziaria grazie all’intervento di Corona bond e al quantitative easing. La crisi finanziaria che si è aperta da un mese avrà ripercussioni per decenni. Nonostante le dichiarazioni politiche, nessun governo potrà ripagare in toto le perdite economiche delle imprese italiane. *Ordinario di Diritto amministrativo