Dietro le faraoniche campagne acquisti intraprese dalla monarchia saudita che stanno terremotando il mondo del calcio e bussando alle porte dell’Europa, si staglia l’ambizioso progetto di lanciare sul mercato un nuovo prodotto che, a detta di alcuni esperti, sostituirà il petrolio al quale non si dà più molta vita, sia per l'esaurirsi dei giacimenti sia per i vincoli imposti per i prossimi decenni dalle legislazioni ambientali. Un volume di miliardi così alto dunque nasconde strategie che non riguardano solo il pallone, anche se il sogno nel cassetto è quello di organizzare il prossimo mondiale come ha fatto il Qatar, ma faranno sentire i loro effetti a lungo termine.

Ma come il principato qatariota, l'Arabia Saudita ha un grande problema, il classico elefante nel salotto: la violazione feroce sistematica dei diritti umani. Il calcio dunque fungerebbe da paravento per celare incarcerazioni, torture e divieti che riguardano in particolar modo la vita delle donne. Il sorgere della stella del principe ereditario Salman bin Abdulaziz Al Saud aveva fatto pensare a una stagione di riforme. Timidi passi ma che testimoniavano un'apertura al mondo occidentale. Evidentemente però l'interesse di Bin Salman è rimasto legato solo al mondo degli affari e dei fondi d'investimento che dominano l'Europa in particolar modo.

Il rapporto di Amnesty International sui diritti umani nel regno saudita per il biennio 2022- 2023 non lascia spazio a dubbi e scatta una fotografia impietosa sullo stato delle libertà civili e politiche all’interno del regno dei Saoud. A finire nel mirino delle autorità sono state in particolare le persone che hanno esercitato pacificamente i loro diritti alla libertà di espressione e associazione.

Una speciale corte penale ( Specialized Criminal Court - Scc) ha processato esponenti di organizzazioni comunitarie e le ha condannate a periodi di carcerazione molto lunghi. I procedimenti giudiziari sono risultati iniqui e macchiati da gravi irregolarità. Dietro le sbarre sono finiti difensori dei diritti umani che in carcere hanno subito maltrattamenti e ai quali è stato vietato di uscire dal paese. Grave e la situazione relativa all'uso della pena capitale comminata anche a persone che al momento dei supposti reati commessi erano minorenni.

Ma la vasta gamma di violazioni si estende anche ai lavoratori migranti sottoposti a detenzioni arbitrarie e ad abusi. Un capitolo a parte merita la discriminazione nei confronti delle donne alle quali e vietato esercitare un ruolo effettivo all’interno della società saudita nonostante le poche riforme “di facciata” concesse dal principe ereditario, come la possibilità di guidare un’automobile. A marzo dello scorso anno alti rappresentanti del Parlamento europeo hanno condannato pubblicamente l’esecuzione di massa avvenuta nel giorno 12 dello stesso mese (una vera e propria mattanza con oltre 80 persone giustiziate) richiamando a una moratoria delle Nazioni Unite che Ryad ha bellamente ignorato. Solo tre mesi più tardi Joe Biden si è recato in Arabia Saudita per una visita diplomatica e di affare ma non è stato fatto nessun riferimento ai diritti umani così impunemente calpestati. Nel frattempo le incarcerazioni sono continuate.

Lo dimostrano alcuni casi che hanno avuto una certa rilevanza internazionale. Il 9 agosto 2022, durante un’udienza d’appello, l’Scc ha condannato Salma al- Shehab, dottoranda e attivista, a 34 anni di carcere seguiti da un divieto di viaggio per altri 34. La sua colpa? Aver pubblicato riflessioni politiche soprattutto via Twitter.

A far infuriare i magistrati sauditi è stato il sostegno convinto di Salma al- Shebab ai diritti delle donne in Arabia Saudita e le critiche senza sconti nei confronti del regime wahaabita. Dietro le sbarre e finita anche la nota difensora dei diritti umani Loujain al- Hathloul che ha subito la stessa sorte di Nassima al- Sada e Samar Badawi, scarcerate con la condizionale ma con condizioni imposte che comprendevano tra l’altro divieti giudiziari di viaggio all’estero e all’interno del Paese, di parlare in pubblico, di riprendere il proprio lavoro di difesa dei diritti umani e di utilizzare i social network per esprimere la loro libera opinione. Tra gennaio e luglio dello scorso anno, l’Scc ha indebitamente condannato cinque difensori dei diritti umani a pene variabili dai sei ai 20 anni di reclusione.