Gli Stati Uniti dell'amministrazione Obama acquisirono prove che Giulio Regeni era stato rapito, torturato e ucciso dai servizi di sicurezza egiziani e avvertirono il governo Renzi. Lo rivela il New York Times. "Abbiamo trovato prove incontrovertibili sulla responsabilità di funzionari egiziani", ha detto una fonte  dell'amministrazione Obama al New York Times, secondo cui gli Stati Uniti "passarono la raccomandazione al governo Renzi". Immediata la risposta di Palazzo Chigi:secondo fonti interne, "nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all'omicidio di Regeni, non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l'altro lo stesso giornalista del New York Times, nè tantomeno 'prove esplosive". "Si sottolinea altresì", proseguono le stesse fonti, "che la collaborazione con la procura di Roma in tutti questi mesi è stata piena e completa". "Tutti gli elementi, anche i più riservati, sono stati portati dal Governo a conoscenza della magistratura di Roma, in uno spirito di collaborazione istituzionale, mai così intenso come sulla drammatica vicenda Regeni". Lo sottolinea il presidente della commissione Esteri del Senato Pier Ferdinando Casini. "Si tratta dunque di una bufala", osserva a proposito della notizia pubblicata dal Nyt sugli elementi portati a conoscenza del Governo italiano. "Ma credo - aggiunge - che bisogna cominciare a capire il perchè di questi articoli. Non c'è dubbio che si stia cercando di strumentalizzare il caso Regeni per colpire gli interessi italiani in quell'area a partire da quelli dell'Eni. Troppi elementi, in questa vicenda, hanno dimostrato come da parte europea, e non solo, si stia strumentalizzando anche l'assenza del nostro ambasciatore per occupare il vuoto lasciato dall'Italia".

LO SCOOP DEL NEW YORK TIMES

L'Amministrazione Obama era in possesso di "prove esplosive" sulle responsabilità di alcuni "alti papaveri" egiziani nella morte di Giulio Regeni, e questo portò ad un più che burrascoso colloquio tra l'allora segretario di Stato John Kerry e l'omologo egiziano Sameh Shoukry. Lo scrive il New York Times in un lungo articolo dedicato al caso del giovane ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016 in circostanze ancora tutte da chiarire. "Nelle settimane successive alla morte di Regeni", scrive il quotidiano in un reportage dal Cairo intitolato "Gli strani garbugli nel caso della scomparsa al Cairo di Giulio Regeni", "gli Stati Uniti vennero in possesso dall'Egitto di prove di intelligence esplosive, prove che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana". Fonti dell'allora Amministrazione Obama citate dal giornale affermano che "si era in possesso di prove incontrovertibili delle responsabilità egiziane". A questo punto il materiale venne girato "al governo Renzi su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca". Ma "per evitare di svelare l'identità della fonte non furono passate le prove così come erano, nè fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l'omicidio". Altre fonti sempre citate dal New York Times affermano: "Non è chiaro chi avesse dato l'ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere" Regeni, ma "quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell'uccisione" del ricercatore. Di più: "Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli". Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità, ma sapevano, sapevano". Questo portò alcune settimane dopo "l'allora segretario di Stato, John Kerry, ad un aspro confronto con il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, nel corso di un incontro che si tenne a Washington". Si trattò di una conversazione "quantomai burrascosa" anche se da parte della delegazione americana non si riuscì a capire se il ministro stesse erigendo un muro di gomma o semplicemente non conoscesse la verità", Un approccio brutale, quello di Kerry, "che provocò più di un'alzata di sopracciglio" all'interno della Amministrazione, dal momento che Kerry "aveva la fama di trattare l'Egitto con i guanti bianchi". Nel frattempo i sette magistrati italiani inviati al Cairo "venivano depistati ad ogni piè sospinto" e lo steso ambasciatore italiano Massari "presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate, ricorrendo ad una vecchia macchina che scriveva su carta sulla base di un codice criptato". Anche perchè "si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane".