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Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu attends the U.S. Independence Day reception, known as the annual "Fourth of July" celebration, hosted by Newsmax, in Jerusalem on Wednesday, Aug. 13, 2025. (Ronen Zvulun/Pool Photo via AP)
Israele gioca su tutti i fronti: da un lato l’approvazione del progetto di insediamento nell’area E1, in Cisgiordania, definito da molti osservatori come il colpo di grazia all’idea di uno Stato palestinese; dall’altro la decisione di richiamare 60mila riservisti per l’occupazione militare di Gaza. Due mosse che, sul piano politico e militare, parlano chiaro: non ci sarà spazio per compromessi, né geografici né negoziali.
Il progetto E1, congelato per oltre vent’anni sotto la pressione delle amministrazioni americane, è stato sbloccato con un via libera che segna una svolta irreversibile. Il progetto prevede l’espansione degli insediamenti tra Gerusalemme Est e la colonia di Ma’ale Adumim, lungo una fascia di territorio che spezzerebbe la continuità geografica della Cisgiordania. In pratica, Ramallah a nord e Betlemme a sud verrebbero separate, rendendo di fatto impossibile la nascita di uno Stato palestinese contiguo. «Questo è il funerale dello Stato palestinese», ha esultato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, leader della destra ultranazionalista, accusando i paesi occidentali di ipocrisia per aver ventilato, in queste settimane, il riconoscimento di una Palestina indipendente.
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. L’Unione Europea ha espresso “profonda preoccupazione” e ribadito che la costruzione di insediamenti nei territori occupati è illegale secondo il diritto internazionale. Stati Uniti e Regno Unito, pur restando cauti nei toni, hanno avvertito che la mossa rischia di «danneggiare seriamente ogni prospettiva di pace». Per i palestinesi, invece, l’E1 è la conferma che la strada negoziale si chiude del tutto: l’insediamento in quell’area è stato a lungo percepito come la linea rossa da non oltrepassare.
Mentre in Cisgiordania si consolida l’annessione di fatto, a Gaza la tensione è pronta a esplodere di nuovo. L’IDF ha annunciato il richiamo di 60mila riservisti che si aggiungeranno ai ventimila già mobilitati nei mesi scorsi, i cui ordini sono stati prorogati. L’obiettivo è preparare il terreno per l’“Operazione Gedeone Chariots”, una nuova offensiva di terra pianificata per maggio. Le truppe si stanno concentrando nelle aree di Zeitoun e Jabalia, nel nord della Striscia, mentre l’esercito ha già predisposto piani di evacuazione di massa: centinaia di migliaia di palestinesi saranno costretti a spostarsi verso il sud, soprattutto nell’area costiera di al-Mawasi, dove vengono allestiti punti di distribuzione di cibo e ospedali da campo.
Ma le agenzie umanitarie avvertono che questi rifugi non garantiranno alcuna sicurezza in caso di una campagna prolungata. Dopo ventidue mesi di guerra, oltre il 90% delle abitazioni di Gaza è stato distrutto o gravemente danneggiato, le infrastrutture sanitarie e idriche sono al collasso e gli esperti delle Nazioni Unite denunciano che lo scenario peggiore della carestia si sta materializzando. Solo ieri, nei bombardamenti intermittenti su Gaza City, sono morte ventuno persone. «La situazione è insopportabile nei quartieri di Zeitoun e Sabra», ha dichiarato Mahmoud Bassal, portavoce della protezione civile.
Il governo Netanyahu continua a fissare obiettivi ambiziosi: liberare tutti gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e annientare la capacità militare del movimento islamista. Ma le famiglie degli ostaggi israeliani, scese in piazza nei giorni scorsi, contestano la strategia: «Un conflitto casa per casa non restituirà i nostri cari vivi», hanno urlato nelle manifestazioni. Nel frattempo, Hamas ha dichiarato di aver accettato una proposta di tregua di 60 giorni con la liberazione di circa la metà dei prigionieri ancora detenuti, ma Israele non ha ancora risposto.
Il quadro che emerge è quello di una duplice stretta: l’offensiva militare su Gaza e l’espansione coloniale in Cisgiordania non sono mosse scollegate, ma tasselli dello stesso progetto politico. Consolidare il controllo israeliano sull’intero territorio e spostare sempre più in là la prospettiva di una soluzione a due Stati. Non a caso, analisti e diplomatici parlano di un disegno che unisce la dimensione bellica e quella territoriale, con la stessa logica: congelare, e forse seppellire, l’idea di una Palestina sovrana.