Il disegno di legge che vuole introdurre in Israele la pena di morte per i terroristi «che uccidono ebrei in quanto ebrei» con un’esecuzione prevista entro novanta giorni dalla condanna e senza alcuna possibilità di appello, segna un punto di non ritorno nella deriva autoritaria che sta attraversando lo Stato ebraico. È una rottura profonda con la cultura giuridica democratica nel suo complesso, che considera il diritto al ricorso un cardine irrinunciabile e una tutela minima contro l’arbitrio dello Stato.

Il fatto che la misura sia promossa apertamente dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, leader di Otzma Yehudit e figura simbolo della nuova destra radicale israeliana, mostra la direzione politica verso cui si sta cercando di spingere il paese: una giustizia più rapida, più dura, meno verificabile, fondata su un’idea di sicurezza che prevale su quella di garanzia.

Persino delle dittature conclamate dilatati tra sentenza e pena. In Iran il ricorso alla Corte Suprema è una tappa obbligata; in Arabia Saudita l’esecuzione può avvenire in tempi relativamente brevi (massimo due anni) ma solo dopo tre gradi di giudizio; in Cina la Corte Suprema Popolare è tenuta a confermare personalmente ogni condanna, una procedura che allunga i tempi e introduce un filtro ulteriore.

Il modello israeliano proposto dall’ala più estremista del governo Netanyahu si collocherebbe dunque non soltanto al di fuori degli standard liberaldemocratici, ma addirittura a un livello di minore garantismo rispetto a sistemi apertamente autoritari. È un dato storico e politico notevole che impedisce di ridurre il dibattito a una semplice misura di sicurezza: ciò che è in gioco è una ridefinizione del rapporto tra Stato e cittadino, tra potere e diritti, tra violenza legale e controllo democratico.

La pena di morte in Israele, dal processo Eichmann in poi, è rimasta una possibilità prevista dalla legge ma praticamente inutilizzata: l’esecuzione del pianificatore della Shoah venne accompagnata da appello alla Corte Suprema e da una petizione di grazia, a testimonianza di un sistema che, pur di fronte a un imputato colpevole di atrocità inenarrabili, non rinunciò all’idea che la giustizia debba essere verificabile, controllabile, contestabile.

La proposta attuale, invece, è concepita in senso opposto: una procedura abbreviata, identitaria, che distingue le vittime sulla base della loro appartenenza etnica e concentra potere nelle mani di giudici militari o civili potenzialmente sottoposti a pressioni politiche. L’identità della vittima diventa parte della definizione stessa del reato e della pena, un cambiamento profondo nel modo in cui lo Stato concepisce la neutralità del diritto.

Questo scarto emerge in un contesto politico già segnato da tensioni esasperate tra governo e sistema giudiziario. Negli ultimi anni, la coalizione guidata da Netanyahu ha cercato di ridimensionare i poteri della Corte Suprema, tentando di sopprimere il diritto di veto sulle leggi e presentandola come ostacolo alla volontà popolare. Lo stesso vale per la polizia: Ben-Gvir, in particolare, ha più volte auspicato una “normalizzazione” dei rapporti tra governo e forze dell’ordine, chiedendo un allargamento del potere esecutivo nella gestione della sicurezza interna.

I paesi che ancora oggi mantengono la pena di morte, dagli Stati Uniti all’India, prevedono tempi lunghissimi per arrivare all’esecuzione proprio perché l’irreversibilità della pena capitale deve permettere alla difesa la possibilità di inoltrare i ricorsi. Nel complesso degli ultimo secolo c solo regimi di guerra e dittature militari hanno adottato meccanismi come quelli oggi discussi a Gerusalemme, e sempre in contesti di sospensione o svuotamento delle garanzie costituzionali. Che una misura simile venga invece introdotta per via legislativa ordinaria, come parte della politica interna di un paese formalmente democratico, è un segnale inequivocabile della trasformazione in corso.

La tensione tra sicurezza e democrazia è un tema costante nella storia di Israele, ma ciò che sta avvenendo oggi è diverso: il bilanciamento sembra rompersi non più a favore di misure temporanee o eccezionali, bensì di un nuovo paradigma. La pena di morte nella sua versione più estrema e vendicativa diventa così il simbolo di uno Stato che si percepisce in guerra anche dentro i propri confini, che riduce il ruolo della giustizia a quello di un braccio armato dell’esecutivo e che misura la sua forza non nella capacità di garantire diritti, ma nella rapidità con cui riesce a sopprimerli.

È in questo cupio dissolvi che prende sostanza la deriva autoritaria: non in un singolo provvedimento, ma nel cambiamento complessivo della cultura politica di una nazione che, dalle macerie di Gaza al ritorno del boia, ha smarrito se stessa, pronta a sacrificare i diritti in nome della sicurezza, e sempre meno disposta a considerare i principi della democrazia come il fondamento della vita politica.