«Era un mafioso, niente chiesa», dice il Questore. «L'ordinanza è un abuso», replica il parroco. «Era un padre di famiglia», aggiunge il vescovo. Protagonista è Giuseppe Barbaro, 53 anni, di Platì. Anzi, il suo corpo, perché giovedì l'uomo, condannato a 5 anni in via definitiva con l'accusa di 416 bis nel processo "Minotauro", è morto in carcere, ad un anno dalla fine della pena, divorato dalla malattia. E una volta morto, il Questore ha impedito i funerali pubblici, decidendo, però, che le esequie andavano celebrate al cimitero.Una decisione che al parroco bresciano del piccolo comune calabrese, don Giuseppe Svaneta, non è andata giù. Tanto da impugnare, con formale lettera indirizzata al ministro Alfano, quell'ordinanza che avrebbe infranto «il principio di non ingerenza tra Stato e Chiesa», chiedendo di lasciare alla famiglia la libertà di decidere come agire. Alla fine il funerale è stato celebrato al cimitero e non in forma privata come ha spiegato lòo ammette lo stesso vescovo di Locri, Francesco Oliva: al camposanto «era già riunita tanta gente».Quello di Barbaro, aggiunge, era un «caso umano» ha suscitato «una reazione generale in paese, trattandosi di un padre di famiglia». E non solo: dopo il funerale, nel pomeriggio di domenica, è stata celebrata una messa in chiesa in suo suffragio, che «vedeva la partecipazione di numerosi fedeli».Episodi che non hanno lasciato indifferente la Dda di Reggio Calabria, dove il procuratore Federico Cafiero de Raho è in attesa della nota formale dei carabinieri per decidere il da farsi. Indignata, invece, la reazione dell'avvocato radicale Gianpaolo Catanzariti, che ha assistito per lungo tempo Barbaro e ha denunciato per primo la situazione di precarietà in cui si trovava. «Posso comprendere, sforzandomi, che i funerali vengano celebrati in forma privata per ragioni di ordine pubblico - ha evidenziato -, ma che addirittura si debba impedire il funerale in forma privata all'interno della chiesa non riesco a comprenderla. A meno che la Casa di Dio non sia infiltrata dalla 'ndrangheta». Le guardie penitenziarie lo hanno trovato senza vita giovedì nella notte nella sua cella di Vibo Valentia. «Più volte mi scriveva e mi confessava che aveva paura di non poter vedere i suoi quattro figli, sua moglie, i suoi genitori anziani, i suoi familiari - ha evidenziato il legale -. Lamentava di essere scarsamente seguito». La corrispondenza tra i due disegna i contorni di un percorso travagliato, fatto di sofferenza. «Oggi sto male e credo che continuando così da un momento all'altro posso morire e non accetto questo fatto», scriveva Barbaro il 5 maggio 2015. A luglio scorso, Catanzariti ed il collega Eugenio Minniti avevano chiesto, senza successo, il differimento della pena con l'applicazione dei domiciliari. La relazione sanitaria aggiornata al 12 luglio certificava, tra le molte altre cose, «cardiopatia», «emisindrome somato-sensitiva da pregresso ictus cerebrale», e «sindrome ansiosa». Ma per i giudici, tale quadro clinico non era incompatibile con il regime carcerario.«Lo avevo visto per l'ultima volta il 6 agosto, durante la visita con Rita Bernardini. Stipato assieme agli altri detenuti - ha concluso Catanzariti -. Non ci è stato consentito, come avviene ovunque, di entrarci ed incontrarli. Solo accalcati dalle sbarre. Anche lì mi manifestava la sua lamentela ribadendomi che non sarebbe uscito vivo da lì. Così è stato. Adesso, per lo Stato italiano, sarà un numero da statistiche, alla voce, "morti in carcere"».Simona Musco