Giunta al quarto giorno di raid sull’Iran, Israele afferma di controllare lo spazio aereo di Teheran e prosegue l’offensiva di guerra fino al raggiungimento dei suoi obiettivi: la distruzione del programma nucleare iraniano, delle sue principali infrastrutture militari e, infine, lo scenario più ambizioso e senz’altro il più complicato: il changing regime.

Il macabro domino in cui in poche ore ha decapitato la catena di comando dei vertici militari della repubblica sciita, (dal capo di Stato maggiore Mohammad Bagheri al comandante del Guardiani della Rivoluzione Hossein Salami, dal maggiore generale Gholamali Rashid al capo dell’intelligence dei Pasdaran Mohammad Kazemi più una dozzina di scienziati) autorizza a pensare che l’esercito israeliano andrà fino in fondo o almeno tenterà di farlo.

Gli ufficiali dell’Idf hanno invitato la popolazione a evacuare le proprie case in diversi quartieri prima di bombardare pesantemente le zone orientali e occidentali della capitale da dove si sono alzate dense colonne di fumo. Nel terzo distretto un missile dell’Idf ha colpito l’edificio della Tv di Stato, l’attacco che ha provocato vittime è avvenuto proprio mentre un’annunciatrice stava lanciando in diretta strali contro Israele: «La voce della propaganda del regime sta per sparire» aveva annunciato poche ore prima il ministro della Difesa di Tel Aviv Israel Katz. Colpire gli organi di informazione è un altro grande classico delle offensive militari che puntano a rovesciare i regimi, basti pensare alla Yugoslavia di Milosevic o all’Iraq di Saddam Hussein.

E in questo contesto caotico, in cui milioni di abitanti stanno lasciando la città creando ingorghi giganteschi nelle arterie metropolitane, si ricorrono le voci sulla sorte della Guida suprema Alì Khamenei, probabilmente il bersaglio singolo principale per l’Idf nonostante il timido veto posto da Donald Trump (che al G7 in Canada ha rifiutato di firmare un documento che chiede la fine dell’offensiva); secondo le fonti più accreditate Khamenei sarebbe rintanato in un bunker nella regione della capitale ma per Iran International, media vicino all’opposizione con sede al Londra, è in trattativa diretta con Vladimir Putin per ottenere un salvacondotto in Russia nel caso in cui la situazione precipitasse. Ieri Netanyahu in persona ha tagliato corto: «La sua morte metterebbe fine al conflitto».

I pasdaran naturalmente ruggiscono, annunciando nuovi lanci di missili sulle città dello stato ebraico, si dicono certi della vittoria finale e fanno sapere che continueranno a combattere anche se Israele fermerà i raid. Ma dietro il bellicoso linguaggio della propaganda si muove anche la diplomazia. Il Wall Street Journal scrive infatti che diversi esponenti del regime iraniano sono pronti a negoziare un accordo che porti alla fine dell’offensiva o comunque a una de-esclation, sottolineando tuttavia che «Israele non si fermerà». Ci saranno almeno altre «due o tre settimane» di raid spiega un funzionario di Tel Aviv al Times of Israel spiegando che nelle prossime ore verranno colpiti anche «obiettivi economici, energetici e simboli del potere politico». Un altro segnale che delinea lo scenario più estremo.

Con l’all in dell’operazione Rising Lyon Benjamin Netanyahu si gioca tutto il suo avvenire politico e personale. La scommessa fa leva su un dato politico brutale quanto realistico: l’opinione pubblica ha la memoria corta o comunque la tendenza a rimuovere. Se la repubblica islamica verrà rovesciata e sostituita da un governo democratico, in una dissolvenza incrociata la cupa immagine del “macellaio di Gaza”, responsabile della morte di decine di migliaia di civili palestinesi muterebbe, almeno in parte, in quella del liberatore delle donne e dei giovani iraniani dalla tirannia degli ayatollah. La narrazione, già largamente abbozzata nei canali filo-governativi israeliani, è chiara: il conflitto con Hamas era solo il sintomo; la malattia da estirpare è la teocrazia iraniana vista come una minaccia esistenziale.

Ma è una narrativa fragile che non tiene conto delle incognite, impossibili da calcolare, e con precedenti storici non del tutto rassicuranti, come dimostrano i casi dell’Iraq, dell’Afghanistan e della Libia dove la caduta delle dittature ha provocato bagni di sangue e guerre civili, alimentando l’instabilità e il jhiadismo internazionale.

Rising Lyon in tal senso non è solo un’operazione di guerra: è il tentativo estremo di riscrivere la Storia prima che venga scritta dai tribunali internazionali, dalle urne o dalle aule di giustizia. Da questo punto di vista Netanyahu ha più nulla da perdere. L’opinione pubblica mondiale lo ha già condannato per Gaza, l’Europa lo evita, l’ONU lo accusa. L’unico modo per sopravvivere politicamente è ribaltare il tavolo. Offrire un’immagine alternativa. Potrebbe essere il protagonista di una svolta storica e a quel punto anche i più feroci detrattori dovranno riconoscere la sua influenza, ma in caso contrario resterà quello che probabilmente è: il simbolo di una deriva violenta e identitaria della società israeliana e il primo ministro che per oltre un anno e mezzo ha bombardato scuole, ospedali e campi profughi, l’unico di un paese democratico a essere raggiunto da un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra.