«Suggestività psicologica probatoria», elementi non sufficienti, prove che non sostengono in alcun modo il costrutto giuridico. E ancora: l'accusa ha trovato prove «inadeguate», mettendo in piedi «una sorta di suggestiva circolarità probatoria». È con queste parole che il gup Marina Petruzzella ha motivato l'assoluzione di Calogero Mannino, ex ministro della Dc accusato di minaccia a corpo politico di Stato. Nelle oltre 500 pagine firmate dal giudice, emerge con chiarezza l'incapacità dell'accusa di tradurre in prove concrete le accuse formulate da Massimo Ciancimino, quello che avrebbe dovuto rappresentare il teste chiave dell'accusa ma che, scrive il gup, avrebbe calcato il banco dei testimoni come un palcoscenico. «Ciascuno dei fatti "politici" valorizzati dal pm - si legge nella sentenza - può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis, ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa». Insomma, non ci sono fonti orali o documentali «che dimostrino il collegamento tra l'iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l'evento ipotizzati dall'accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stagista della mafia, le scelte del Governo». Non c'è un fatto al quale si possano applicare i canoni della gravità e della precisione indiziaria che consentirebbe di collegare le raccomandazioni di Mannino con i Ros alla interlocuzione tra i Ros e Vito Ciancimino e alla scelta di sostituire Scotti col manniniano Nicola Mancino e con le dimissioni successive di Martelli. Nella prospettiva dell'accusa, la "trattativa" sarebbe stata ispirata da Mannino, ma non col fine di catturare i latitanti e di porre fine agli attentati, ma con un fine politico «di rifondazione del patto politico tra Mannino, altri politici e Cosa nostra». Mannino, all'epoca dei fatti potente politico democristiano e ministro per gli interventi straordinari nel mezzogiorno del governo Andreotti, era accusato, in sostanza, di avere spinto a farsi intermediari di tale "trattativa" con cosa nostra i carabinieri del Ros, nelle persone del colonnello Mori e del capitano De Donno, sfruttando la propria risalente conoscenza del generale Subranni, in quel periodo al comando del gruppo. Ma dal processo tutto ciò non emergerebbe. Numerose criticità «ed insidie» emergerebbero nelle pieghe delle «farraginose e fluviali dichiarazioni del Ciancimino», dichiarazioni che mancherebbero di coerenza e che hanno reso palese «la strumentalità del comportamento processuale del Ciancimino, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere "sulla corda" i pubblici ministeri col postergare la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l'attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia». Insomma, le sue dichiarazioni, che hanno alimentato il mosaico accusatorio sulla complessa ipotesi della trattativa stato-mafia e in cui vengono riagganciate a ritroso le condotte attribuite all'imputato Mannino, «non assumono adeguata validità probatoria».