L’antropologo francese Michel Agier nel suo libro La condition cosmopolite: L’anthropologie à l’épreuve du piège identitaire propone una bellissima riflessione sulle terre di frontiera nel contesto dei fenomeni migratiori attuali. Seconda Agier questa sete di muri, recinzioni, che emerge trasversalmente nel cuore dell’Occidente, in un epoca in cui i confini nazionali vengono messi in discussione dal fenomeno della globalizzazione, mira ad annullare il ruolo sociale e simbolico del “confine”, come luogo fondamentale in cui si costruisce il rapporto del Sé con l’Altro. Qualsiasi identità senza questa relazione semplicemente non esiste.

Oggi questa funzione è messa seriamente in discussione. Innanzitutto, dall’ondata delle nuove destre che pensa di annullare l’Altro scacciandolo al di là di “muri”, siano essi fisici- come le recinzioni a filo- spinato che segnano il confine del Messico - o simbolici - come quel cimitero a mare aperto che è diventato il canale di Sicilia; in ogni caso, il “muro” rappresenta la condizione di inferiorità in cui, secondo questa visione, si concepisce, e soprattutto si vuole mantenere, l’Altro. In secondo luogo, la relazione fra identità e alterità è messa in discussione a sinistra dall’esasperazione delle identity politics, divenute ormai sempre più recinti tribali in cui il rapporto con l’Altro è inteso sempre e solo come conflitto, o al limite come alleanza politica, strategica e contingente. Il gioco identitario, così, diventa molto pericoloso perché carica la lotta politica di significati laceranti. In questo modo, si nega qualsiasi relazione paritaria con l’Altro, chiunque esso sia, presupposto necessario per la comprensione che l’Altro non esiste e che gli Altri siamo noi. Soprattutto, venuto meno questo riconoscimento simbolico, l’Altro non può emergere come soggetto autonomo, rimanendo imprigionato nella dimensione dell’oggetto da utilizzare strumentalmente.

Sui giornali Italiani, infatti, a parlare della crisi migratoria, ci sono Salvini e Saviano, i “sovranisti” e i “buonisti”; manca però il soggetto fondamentale: i rifugiati e migranti. Le poche interviste concesse ripercorrono lo stesso copione; al soggetto migrante è permesso raccontarsi esclusivamente in relazione alla propria esperienza - meglio se traumatica - del viaggio. La sua vita diviene rilevante soltanto quando, come scrive lo studioso Luca Mavelli in un articolo per il Review of International Studies, è funzionale alla vita emozionale della popolazione ospitante provocando sentimenti come pietà, compassione, altruismo. Guardando al dibattito italiano, dopo essere messi in salvo sulle navi della guardia costiera, spente le telecamere, queste persone non hanno più nulla da raccontare e diventano invisibili.

Perché, per esempio, la voce dei rifugiati e migranti non è minimamente ascoltata quando si parla di governance dei fenomeni migratori globali e del sistema di accoglienza? Perché non vengono intervistati quando si parla, spesso a vanvera, di riforma del diritto d’asilo o di rapporti fra Nord e Sud del mondo?

Quest’analisi potrebbe estendersi, più generalmente, alle comunità straniere in Italia. Nonostante siano circa l’ 8% della popolazione, la presenza di queste comunità nel dibattito pubblico è marginale. I loro esponenti vengono interrogati esclusivamente quando c’è da commentare un evento di cronaca nera, a patto che sia commesso da uno straniero, o quando si parla del rapporto con l’Islam. L’esempio più lampante riguarda le donne di religione islamica chiamate in televisione a recitare la propria parte in commedia quando si deve discutere del velo e del ruolo della donna nell’Islam. Mai che si chieda a queste donne, che pure vivono e lavorano nel nostro paese, di commentare temi più ampi che riguardano le loro vite, dal lavoro al welfare, dall’ambiente alla salute.

In altre nazioni europee, ciò non accade o accade in misura minore. Esponenti delle comunità straniere vengono costantemente interpellati dai media; vi sono intellettuali, attivisti e leader che hanno conquistato spazi importanti nel dibattito pubblico. In Italia, no; segno di una mentalità - coltivata in tutti gli ambienti culturali, politici ed economici - ancora profondamente colonialista in un paese che non ha fatto i conti col proprio passato, dalla macchia delle leggi razziali all’esperienza imperialista in Africa. Questa strategia dell’invisibilità ha come obiettivo principale la marginalizzazione delle comunità straniere nella vita pubblica del paese.

Nel contesto della crisi migratoria, il rifugiato, come scrive la studiosa Vanessa Pupavac dell’università di Nottingham, è percepito esclusivamente come oggetto di pietà o disprezzo, e mai come soggetto autonomo; per questo motivo contro di lui si può osare di tutto in un clima d’impunità generale. Non c’è allora da sorprenderci, se oggi alcune zone dell’Italia somigliano più all’Alabama degli anni 50, piuttosto che ad un normale stato europeo: insulti razzisti vengono urlati per strada, persone migranti scacciate da esercizi pubblici, un vortice di violenza incontenibile che in alcuni casi è sfociata persino nell’uso di armi da fuoco. Privati di qualsiasi soggettività, ai migranti e rifugiati, non resta allora che cercare qualcuno che parli per loro, sperando che ne sia quantomeno capace. Su questo fronte la sinistra italiana è stata purtroppo davvero mancante. Lo ius soli, per esempio, è stato accantonato alla prima difficoltà; in parlamento, l’unico parlamentare di origine africana, lo ha eletto, con tutte le riflessioni del caso da fare, la Lega di Salvini; ma soprattutto, e questa è a mio giudizio la ferita più lancinante, il blocco esteso della sinistra italiana - dalla Cgil al Pd passando per tutte le altre sigle di quella galassia culturale - non è stato in grado di costruire alcuna reazione unitaria a fronte di due gravissimi episodi di violenza: la sparatoria di Macerata e l’omicidio di Soumaila Sacko. In questi due casi, si doveva scendere in piazza e non lo si è fatto; per paura o forse, e speriamo di sbagliarci, per mero calcolo politico.

Il risultato è che al momento sul piano culturale i discorsi razzisti sono stati legittimati nel ventre del paese; il tappo della decenza, per non parlare di quello della memoria e della consapevolezza storica, in un paese che ha visto intere generazioni di suoi cittadini poveri divenire migranti economici, è completamente saltato.

Siccome non si può morire d’indignazione, né tantomeno lavarsi la coscienza con un post su Facebook, ad un certo punto qualcosa bisognerà pure fare. In questo senso, l’unico modo davvero efficace per arginare quest’ondata di razzismo è rompere questa strategia dell’invisibilità che attanaglia la popolazione di origine straniera, i migranti e i rifugiati, nel nostro paese. A seguito della morte di Soumaila Sacko, sembrava che qualcosa si stesse muovendo in questa direzione. I migranti della piana di Gioia Tauro hanno protestato e sono stati ascoltati sulle condizioni di schiavitù in cui vengono costretti a fare il proprio lavoro. Personalità interessanti come quelle del sindacalista Aboubakar Soumaoro, sono emerse nel dibattito pubblico mainstream per trattare non soltanto i temi del razzismo, ma anche le questioni del lavoro e delle nuove povertà che interessano tutti. Occorre ripartire da lì, non facendo spegnere questo barlume di speranza. Alla sinistra italiana, intesa come movimento politico- culturale esteso, spetterebbe il compito di costruire questo spazio politico per far emergere queste voci, tenute troppo a lungo ai margini delle società. Speriamo davvero, per tutti, migranti e non, che ne abbia ancora le forze.