Il 16 maggio del 1974, tre giorni dopo la vittoria del divorzio al referendum, viene arrestato a Milano Luciano Leggio, detto Liggio. Il più celebre capomafia del dopoguerra. Da quel momento, dentro Cosa Nostra, il bastone del comando passa ai suoi luogotenenti che controllano la cosca dei corleonesi. Il principale luogotenente è Totò Riina, poi c’è Bernardo Provenzano.

Riina tiene le redini della mafia per quasi vent’anni, fino al 1993, quando viene catturato, poco dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino.

Gli succede Provenzano, che resta al comando un’altra decina d’anni. Lo catturano nel 2006.

Con la morte di Riina, si è chiusa l’epopea feroce e maledetta dei grandi corleonesi. Provenzano era morto nel luglio di un anno fa. Liggio morì in carcere nel 1993.

Il 41 bis - cioè l’organizzazione del carcere duro, una forma severa e un po’ crudele di carcerazione - è stato pensato proprio per impedire che i grandi corleonesi continuassero a nuocere, anche dal carcere. I politici e i magistrati, che difendono questa istituzione, hanno sempre spiegato che non è una forma più aspra di punizione ma solo una misura di sicurezza. E risponde alla necessità di impedire che i capi comunichino con i picciotti. Diano ordini, tessano strategie. L’asperità della punizione è solo un effetto collaterale. Non ci sono più Riina e Provenzano Il 41 bis ora può essere abolito

Non è facilissimo credere a questa tesi. Che è stata ripetuta per anni, anche negli ultimi tempi, per impedire che a Provenzano e Riina, ormai malatissimi, fosse risparmiato il 41 bis mentre erano agli sgoccioli della loro vita. Ma facciamo uno sforzo, e crediamoci.

Ora che i due capi non ci sono più e che il vertice di Cosa Nostra è stato disarticolato, che senso ha mantenere il 41 bis?

Non c’è nessuno tra gli investigatori e gli studiosi che pensa che il vertice operativo di Cosa Nostra sia collocato in carcere, e che sia da lì che partono gli ordini. Gli inquirenti e gli studiosi sanno che la mafia in questi anni ha subito dei colpi micidiali, che la sua struttura è molto indebolita, la sua potenza militare ridimensionata e quasi ridotta a zero, e che probabilmente – lo dice in un’intervista che pubblichiamo a pagina 3 del Dubbio di oggi il magistrato Alberto Cisterna, ex numero due della Dna – non dispone più di un comando unitario. Oltretutto – dice sempre Cisterna, l’impressione è che non abbia più, da tempo, un ruolo centrale nell’organizzazione e nella direzione del crimine nel nostro paese.

Mantenere il 41 bis non risponde oggi a nessuna esigenza di sicurezza o di investigazione. Dopo la morte dei due capi, anche dal punto di vista formale ( o dell’immaginario), risponde solo all’esigenza di mandare un messaggio di “durezza”, che possa servire come monito, come intimidazione.

Ma la giustizia come monito o come intimidazione non è prevista dalla nostra Costituzione. E neanche la crudeltà come forma di risposta ai crudeli.

Proprio in questi giorni, in seguito alla vicenda Ostia, che ha avuto un grande risalto sui giornali, è risultato molto evidente come la “mafiosità” rischia di diventare un pretesto che serve solo a rendere più semplice la repressione. Il che può anche essere considerato da molti un fatto positivo, ma è innegabile che è qualcosa che lede lo Stato di diritto.

A Ostia è stato arrestato Roberto Spada per un reato sicuramente grave e odioso, quello di avere pestato un giornalista che gli faceva domande scomode. Questo reato però non prevede la possibilità di arresto preventivo. E allora la Procura ha usato il grimaldello della mafiosità, e cioè ha stabilito che le botte ( la testata) al giornalista, erano avvenute in modalità mafiosa. È evidente che siamo di fronte a una manipolazione quasi farsesca della legge, però nessuno ha avuto niente da dire, sulla base di un ragionamento molto semplice: Spada è colpevole, per di più Spada è antipatico, per di più Spada ha colpito un giornalista, quindi è indifendibile e non c’è nessun bisogno invocare per lui lo Stato di diritto. E così l’altro giorno si è arrivati a trasferire Spada in un carcere di massima sicurezza come se fosse un capomafia autore di omicidi e stragi.

Una legge che procede con il doppio binario, utilizzando l’articolo 416 bis del codice penale ( associazione mafiosa) per bypassare le garanzie offerte dai codici, può avere un senso – forse – per un periodo molto breve e di grande e vera emergenza. Aveva un senso, probabilmente, nel 1992, dopo gli attentati, le uccisioni, e poi nel 1993, l’anno delle stragi. Oggi è ingiustificabile. Non c’è una emergenza mafiosa e sono passati 25 anni da quelle stragi.

Naturalmente anche per i reclusi accusati di mafia, e quindi chiusi al 41 bis, funziona il ragionamento che viene fatto per Spada: son mafiosi, son colpevoli, a che serve lo Stato di diritto? Ecco, il punto è proprio questo. Lo Stato di diritto è Stato di diritto solo se vale per tutti. Se prescinde dalle colpe, o dalle accuse, o dalla gravità delle colpe o delle accuse. La forza dello Stato di diritto è quella. E se lo Stato di diritto perde la sua universalità, scompare.

Tre giorni fa l’Onu ci ha fatto notare che le condizioni nelle quali si vive al 41 bis non sono civili. E non rispondono alle norme previste dalla carta dei diritti dell’uomo. I giornali non ne hanno parlato. I giornali non parlano di queste cose. E neanche i partiti. Perché la contraddizione tra 41 bis e Costituzione italiana non è molto popolare. Non porta voti. Non porta copie. L’opinione pubblica non ha nessuna voglia di sentirsi dire che lo Stato di diritto vale anche per chi è stato accusato o condannato per mafia. O vale per i terroristi.

E invece proprio oggi, nel vortice dell’indignazione per Riina, per la sua vita, per la sua morte, mentre persino la Chiesa dimentica per un giorno la carità e rifiuta i funerali, bisogna avere il coraggio di non farsi mettere il silenziatore.

Riina non c’è più, Provenzano non c’è più, la direzione della mafia non è in carcere. Il 41 bis è solo un abuso che va abolito, ascoltando il parere dell’Onu.