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È probabilmente il culmine dell’offensiva nazionalista di Narendra Modi che vuole lasciare la sua impronta indelebile nella Storia della patria trasformandola in una sua creatura. Oppure restituendole finalmente la sua identità pre- coloniale come affermano i suoi sostenitori per i quali è un passaggio necessario per «uscire dalla mentalità della schiavitù». Il premier indiano ha infatti annunciato che il governo cambierà il nome della nazione in “Bharat” il termine sanscrito tratto dagli antichi testi hindi già presente nella Costituzione del 1949 che prevede l’utilizzo di entrambe le parole.
La “prova generale” è il G20 che inizierà domani a New Delhi: nella lettera di invito ai leader internazionali, un cartoncino bristol in lettere d’oro, Modi si firma infatti «primo ministro del Bharat». Si tratta del nome utilizzato nella lingua hindi, parlata da almeno il 57% della popolazione, ovvero 692 milioni di persone secondo l'ultimo censimento del 2011. Per fare un confronto, l'inglese è parlato “soltanto” da 129 milioni di abitanti, pari al 10% della popolazione. Tutti i documenti ufficiali redatti in inglese portano il nome “India” quando si riferiscono alla Repubblica, ai suoi ministeri, alla corrispondenza nazionale ed estera e descrivono le figure governative come «leader indiani». Anche carte d'identità valide come passaporti e carte elettorali utilizzano il termine “India” per indicare la cittadinanza. Ma i documenti pubblicati in lingua hindi, che insieme all’inglese è uno dei 22 idiomi ufficiali, dicono “Bharat”.
Il partito del popolo ( Bjp) insiste da tempo per attuare questa rivoluzione simbolica ( ci furono già due tentativi, uno nel 2016, l’altro nel 2020 che non vennero accolti dalla Corte suprema) che va a toccare le radici dell’identità nazionale e presenterà entro la fine del mese di settembre la legge in parlamento, dove peraltro gode di un’ampia maggioranza.
Nelle dichiarazioni ufficiali la volontà del governo è quella di «ripulire» il Paese dalla pervasiva eredità coloniale britannica: furono infatti i conquistatori inglesi a coniare il nome “India”, mutuandolo dal fiume Indo ( oggi Sindhu) anche se poi il termine fu incorporato nella nascente democrazia. Negli scorsi anni anche le tracce dell’antica dominazione mongola sono state rimosse dal governo di Modi, per non parlare dell’islam, praticato da quasi 200 milioni di indiani ma oggetto di una feroce rappresaglia iconoclasta da parte delle autorità: dal 2015 la celebre Aurangzeb Road di New Delhi, dedicata all’omonimo re Moghul è stata cambiata in Dr APJ Abdul Kalam Road, undicesimo presidente dell’India dal 2002 al 2007 e così è stato per centinaia di strade e monumenti.
Per nulla contenta è l’opposizione che denuncia la «demagogia» di Modi e dei suoi ministri: «Spero che non siano così stupidi da rinunciare completamente all’India, un nome carico di storia e conosciuto in tutto il pianeta, possiamo tranquillamente continuare a usare entrambi i termini come è scritto nel primo articolo della nostra Costituzione», spiega su X ( ex Twitter) Shashi Tharoor, dirigente del partito del Congresso.
Inoltre, e questo è davvero un abile colpo di marketing politico, cambiando la definizione della patria Modi e il Bjp colpiscono al cuore il cartello dei partiti di opposizione che il prossimo anno sperano di ritornare al potere: la coalizione si chiama infatti... India che altro non è che l’acronimo di National Developmental Inclusive Alliance.
L’India non è certo il primo paese che per liberarsi dal suo passato coloniale ( o per altre ragioni) modifica il nome ufficiale. Molto recentemente nel 2022, e per motivi decisamente più frivoli, la Turchia ha ottenuto dalle Nazioni Unite il permesso di potersi definire Türkiye in quanto il termine inglese Turkey designava anche e soprattutto il prosaico “tacchino”.
Nel continente africano negli anni ’ 60 e ’ 70, quando i movimenti di indipendenza cacciarono via i coloni occidentali quasi tutte le ex colonie cambiarono il proprio nome come primissimo atto della nuova epoca. Per fare qualche esempio, il Dahomey divenne il Benin, l’Alto Volta il Burkina Faso, lo Zaire la Repubblica Democratica del Congo, il Bechuanaland si trasformò in Botswana, mentre Celyon la grande isola dell’oceano indiano cambiò nome in Sri Lanka.