Chiuso il caso Iuventa. Dopo sette anni e 40 udienze, il gup di Trapani ha emesso sentenza di non luogo a procedere per 4 membri dell'equipaggio e altri 17 indagati nel caso della nave umanitaria "Iuventa" della ong Jugend Rettet, che rispondevano di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

La ricostruzione del caso giudiziario

L’ipotesi iniziale della procura è sintetizzabile nell’idea secondo cui tra il 2016 e il 2017 l’equipaggio della Iuventa, «anziché effettuare veri e propri soccorsi di persone in pericolo», agisse «di concerto con le reti dei trafficanti libici, organizzando “consegne concordate” in acque internazionali di migranti che successivamente venivano trasportati sul territorio italiano».

Agli indagati è stato contestato anche il fatto che tali operazioni garantivano loro «maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione – anche economica – dei propri sostenitori». Un’ipotesi infamante, secondo la difesa, in linea con la narrazione pubblica di quegli anni. «Per molte delle sue caratteristiche il processo alla Iuventa rimarrà un unicum - si legge nella memoria dei legali -. Ad esempio, è l’unico procedimento nel quale il sequestro preventivo di un’imbarcazione soccorritrice risulta ancora in essere dopo sette anni».

Con la richiesta della procura, però, crolla definitivamente la propaganda sui “taxi del mare”, con le Ong trasformate in propaggini delle organizzazioni criminali che lucrano sulla pelle dei disperati in cerca di salvezza. Il governo, che ha chiesto di costituirsi parte civile, ha scelto di rimettersi alla decisione del Tribunale. Che in mano ha una memoria della procura che fa a pezzi la credibilità dei principali testimoni, ex agenti di polizia infiltrati sulla nave, portati in gloria, all’epoca, dai partiti di destra, la cui attendibilità, però, secondo i pm appare «seriamente messa in dubbio dalla loro spasmodica ricerca di un referente politico interessato alle politiche sulla immigrazione che potesse raccogliere e utilizzare i loro dubbi sulla legittimità dell’operato delle Ong nel mar Mediterraneo» e anche «dal loro tentativo di interfacciarsi addirittura con i servizi di sicurezza dell’Aise».

Insomma, erano tutte frottole, a quanto pare, anche perché gli ex agenti, sentiti in udienza preliminare, hanno ridimensionato di parecchio le accuse mosse contro le ong. La cui ottica, hanno dovuto ammettere, era «proiettata unicamente al salvataggio di vite umane». E le risposte degli ex agenti avrebbero palesato «tutto il loro imbarazzo nel tentare di spiegare la ricerca di una sponda politica».

Pietro Gallo, in particolare, in una intervista al Fatto Quotidiano ha ammesso di provare rammarico per quanto fatto. «Oggi mi vergogno. Profondamente», ha dichiarato, accusando Matteo Salvini di essere un ingrato per aver abbandonato lui e i suoi colleghi, che dalla nave fornivano informazioni e dossier sulle ong ai servizi segreti e allo staff del leader del Carroccio. «Il mio obiettivo non era impedire alle ong di salvare la gente, anzi - ha raccontato -. Quando sento che 170 persone sono morte in mare perché non c’era nessuno a soccorrerle mi sento responsabile».

Un procedimento penale durato sette anni

Ma cosa è successo in questi sette anni? Nella loro memoria, gli avvocati Nicola Canestrini, Francesca Cancellaro e Alessandro Gamberini raccontano le conseguenze della criminalizzazione delle ong: «Nell’arco temporale compreso tra il 2017 e settembre 2023, il numero dei dispersi supera le 11mila unità». Sette anni durante i quali sono state cercate prove che non esistono, anni durante i quali migliaia di migranti sono morti in mare e una nave che avrebbe potuto salvarli è rimasta ad arrugginire. Il tutto costando allo Stato 3 milioni di euro. In mezzo ci sono leggi e decreti che hanno tentato di azzoppare i volontari disposti a uscire in mare per aiutare i disperati partiti alla ricerca di fortuna a bordo di bagnarole marce. Come quelli morti a pochi metri dalla spiaggia di Cutro, che forse avrebbero potuto essere salvati.

«Il processo all’equipaggio della nave Iuventa ha mostrato a tutta Italia e a tutta Europa quanto possono essere pervasivi gli effetti della criminalizzazione della solidarietà - ha spiegato in un video l’avvocata Cancellaro -. Questa criminalizzazione è stata possibile ed è tuttora possibile a causa della disciplina del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, una disciplina che noi contestiamo duramente sia a livello nazionale che a livello europeo. La criminalizzazione della solidarietà - ha aggiunto - passa anche per nuove ed altrettanto pervasive discipline.

Mi riferisco in prima battuta al decreto Piantedosi, la disciplina che poco più di un anno fa è stata introdotta in Italia per regolamentare e reprimere l’attività di soccorso delle ong. Infatti, a fronte del salvataggio in mare di migliaia e migliaia di persone, le attività Sar sono colpite attraverso un sistema di misure formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali, che prevedono ingenti multe e il fermo amministrativo delle imbarcazioni.

Dall’introduzione del decreto Piantedosi, oltre 20 fermi amministrativi e altrettante multe sono state disposte. In caso di reiterazione, il decreto prevede addirittura la confisca dei natanti, che determina l’interruzione permanente delle attività e dunque la morte delle attività di soccorso della flotta civile.

Per questo motivo, davanti al Tribunale di Brindisi abbiamo discusso i profili di illegittimità costituzionale di questa disciplina - ha concluso -. La legge non può sacrificare in modo sproporzionato i diritti fondamentali delle organizzazioni non governative che rivendicano il diritto di soccorrere, oltre che il dovere di farlo, e non può sacrificare allo stesso tempo i diritti fondamentali delle persone in movimento che rischiano ogni giorno la vita in mare».