Siamo ufficialmente usciti dalla procedura di infrazione che aveva colpito il nostro Paese dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Torreggiani, relativa al sovraffollamento carcerario. Non è un dato meramente burocratico.E' un vero e proprio sospiro di sollievo per la civiltà del nostro Paese, sfregiato dall’annosa questione delle condizioni di vita nelle carceri. Per questo registrare il dato di una diminuzione, in meno di un anno e mezzo, da 67mila detenuti (con una capienza regolamentare di 47mila) a circa 53mila (con una capienza cresciuta fino a circa 49mila posti), testimonia un lavoro concreto avviato da questo governo e non ancora concluso. In questo ristretto lasso di tempo sono state portate modifiche all’ordinamento sia sul versante della depenalizzazione dei cosiddetti reati "bagattellari", sia sull’estensione di provvedimenti, come la "messa alla prova" o altri strumenti di esecuzione penale esterna, che hanno riportato l’indispensabile funzione dell’esecuzione penale nell’alveo della prescrizione costituzionale, quella che parla delle "pene" (al plurale e non al singolare, ricordandoci che non c’è solo il carcere) come strumento che non può violare diritti fondamentali della persona e che ha una finalità rieducativa, al fine di realizzare un percorso che, fuori da ogni retorica buonista, possa realizzare una diminuzione della recidiva e quindi accrescere la sicurezza della società.È in definitiva questo l’obiettivo che si pongono gli Stati Generali dell’esecuzione penale, voluto fortemente dal ministro Orlando, che vedranno il loro atto conclusivo lunedì e martedì prossimo al carcere di Rebibbia, alla presenza del Capo dello Stato. Si è trattato di un lavoro imponente, che ha visto per un anno coinvolti oltre duecento protagonisti del mondo dell’esecuzione penale (dagli operatori istituzionali, la polizia penitenziaria, gli operatori sanitari e della formazione, ai volontari, fino agli studiosi della materia) su diciotto tavoli di lavoro. Ciascuno dei tavoli ha trattato aspetti decisivi della condizione carceraria: dagli spazi detentivi alle condizioni di lavoro, dal lavoro dei detenuti al loro diritto all’affettività, passando per quelle questioni quotidiane che segnano il confine tra civiltà e inciviltà di un Paese. Potrei dire che sono il simbolo dell’importanza che questo governo attribuisce a due elementi essenziali della nostra democrazia: l’efficacia della pena e la dignità nella pena.La nostra sfida passa per un vero e proprio cambio di paradigma, verso una logica della pena che implementa la responsabilità. Dobbiamo a tutti i costi evitare il rischio che il periodo detentivo sia un periodo di sospensione e d’“infantiliazzazione". Ciò che vogliamo è diminuire la recidiva, agire con programmi di "giustizia riparativa", come anche personalmente ho potuto vedere con lo straordinario lavoro che sta facendo Libera nel far incontrare le vittime dei reati di mafia con i detenuti. E soprattutto evitare che vi sia una esperienza detentiva che diventi l’anticamera di una recrudescenza, magari per l’affiliazione a qualche organizzazione criminale o per la radicalizzazione di matrice jihadista, di cui vediamo i tragici esempi tra gli esecutori materiali delle stragi di Parigi e Bruxelles. Dobbiamo avere ben chiaro che il "pianeta carcere" non può essere il luogo della rimozione collettiva dei responsabili dei reati, una sorta di "discarica sociale" dove qualcuno vorrebbe chiudere sine die i responsabili dei reati e "buttare la chiave". Il nostro compito è quello di guardare all’esecuzione penale come a una funzione sociale e civile essenziale per la tenuta della società. Per questo, in conclusione, vorrei commentare due casi che ci riportano alla dura realtà della vita. Il primo è il caso di Doina Matei. Non entro nello specifico del giudizio che ha portato il giudice di sorveglianza a sospendere temporaneamente la misura della semilibertà, né mi permetto di giudicare il dolore incancellabile della famiglia della sua vittima, ma voglio sottolineare quanto sia morboso l’atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica che è pronta a emettere ulteriori sentenze e non si chiede se quella persona possa ritornare nella società più consapevole del suo delitto e anche della necessità di non aver più comportamenti violenti (visto che in ogni caso la pena alla fine verrà scontata). Il secondo è quello di un detenuto del carcere di Velletri che, avendo da scontare "solo" cinque mesi per un furto, appena entrato si è impiccato. Sono due casi che ci richiamano a un senso di responsabilità che non possiamo mai dismettere. Quello di far vivere la Costituzione e il nostro senso di umanità ogni giorno, anche quando le belve giustizialiste tirano fuori le loro pericolose zanne demagogiche.*Sottosegretario alla Giustizia