L’attesa del via libero definitivo del nucleo principale della riforma penitenziaria, alcune criticità poco conosciute che riguardano gli internati e il 41 bis, gli incontri internazionali e i monitoraggi suddivisi su quattro grandi aree riguardante la privazione della libertà. Mauro Palma, presidente dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personali, segue tutti questi fronti con grande attenzione.

Il 16 marzo scorso c’è stato un ulteriore passo del governo verso il completamento del percorso legislativo di approvazione della riforma penitenziaria. Siamo agli inizi della nuova legislatura, le Camere si sono insediate e manca un ultimo passaggio. Secondo lei ci sono ancora i presupposti per il via libera definitivo? Sono moderatamente ottimista. Rispetto agli altri tre decreti licenziati preliminarmente che devono ancora essere sottoposti al parere delle Commissioni giustizia, per quest’ultimo decreto principale della riforma manca un passaggio tecnico. Siccome il governo non ha accolto in pieno i rilievi delle commissioni, il regolamento prevede che il testo venga rimandato alle commissioni che hanno 10 giorni di tempo per esprimere un parere non vincolante, oppure è previsto un silenzio assenso. Dopodiché, formalmente, deve ritornare al Consiglio dei ministri che può dare il via libera definitivo. L’unico modo affinché l’iter si compia è quello di inviare immediatamente il decreto appena si istituiscono le commissioni, in questo caso probabilmente saranno quelle speciali che hanno lo scopo di dirimere i provvedimenti del governo rimasti in sospeso.

In una nota lei ha detto che si tratta del nucleo più atteso perché tende verso un’esecuzione penale che non sia esclusivamente di natura carceraria. Sarà una svolta epocale? Guardi, sicuramente si tratta di un decreto importante, ma ho un po’ la sensazione che ci sia la percezione – sia chi lo dice in termini positivi che in termini negativi – che cambierà tutto. Ricordiamo che diversi decreti innovativi sono rimasti nel cassetto.

Eppure ci sono state diverse polemiche. Alcuni giornali e movimenti politici parlano di “salvaladri”. Addirittura, recentemente, il sociologo Nando della Chiesa ha dichiarato che la riforma penitenziaria è un favore che lo Stato concede alle mafie. La mia sensazione è che non abbiano letto bene il testo della riforma. Eppure, dalla legge delega ci sono stati diversi passaggi e mi domando, tra l’altro, perché chi ha tutte queste paure non l’abbia detto prima. Ci sono due punti cardini da evidenziare: non si tocca il 41 bis e non riguarda il reato di mafia e terrorismo. Probabilmente la questione è venuta fuori per un cavillo strettamente tecnico riguardante la questione dello scioglimento del cumulo. Facciamo un esempio chiarificatore. Il signor x deve scontare un reato di associazione mafiosa e poi ha altri reati non connessi a quello principale. Quando ha pienamente scontato gli anni relativi al reato di mafia, quelli rimanenti sono di altro tipo e possono essere considerati non ostativi. Quindi, ripeto, che non c’è nessuno sconto per chi commette reati di associazione mafiosa. Temo che queste polemiche infondate, forse dovute dal poco approfondimento, stiano in realtà creando vane aspettative nei confronti di chi è dentro per associazione mafiosa.

Il decreto comunque modifica il 4 bis, l’articolo dell’ordinamento che vieta ogni concessione dei benefici per alcuni delitti. Certo, lo riporta semplicemente alla sua funzione originaria. Con il passar del tempo, al 4 bis erano andati a confluire diversi reati ritenuti gravi e di allarme sociale. Non era questa la finalità iniziale del 4 bis e con gli anni, impropriamente, sono stati inseriti reati individuali che non riguardano l’associazione mafiosa e terrorismo.

Ma questo decreto principale della riforma, quindi, è lassista nei confronti di chi commette un reato oppure no? Tutt’altro. Più volte ho sottolineato che non porta a concepire le pene alternative come semplici attenuazioni delle afflizioni, ma le vuole proporre come un percorso verso il ritorno sociale. Quindi chiede anche di fare delle cose. In questo punto, secondo me centrale, una persona responsabilizzata è anche più consapevole di ciò che ha commesso. C’è un altro punto del decreto che lo ritengo di vitale importanza.

Quale? Quello che equipara la malattia fisica sopravvenuta con l’infermità psichica. Attualmente, sospendere la pena per malattia mentale con l’esistenza dell’art. 148 ( che riguarda l’infermità psichica in carcere, ndr), non è più possibile, perché il giudice, secondo quell’articolo, inviava i detenuti negli Opg che per fortuna non esistono più. Quindi l’art. 148 va abolito e nel 147 laddove si parla di malattie somatiche si devono includere anche quelle psichiche. Un principio, quest’ultimo, che viene contemplato dal decreto principale della riforma. Inoltre è un provvedimento che è positivo rispetto a chi opera dentro il carcere, perché chiarisce che di alcune cose la responsabilità è medica e dà un ruolo al personale di controllo anche quando le persone eseguono le misure alternative. Complessivamente sono provvedimenti di buon senso e si tratta, in sostanza, di un ritorno allo spirito originale della riforma.

Il testo approvato della riforma tocca indirettamente anche la questione degli internati, figure poco conosciute nell’ambito penitenziario. Partiamo dal fatto che il nostro sistema è stato concepito negli anni 30 come un sistema bifasico: da un lato c’è la pena per quello che hai commesso, dall’altro c’è la misura di sicurezza per l’ipotesi che tu sia pericoloso. Io ho dei dubbi concettuali su un sistema di questo genere, perché mentre nel primo caso interviene su ciò che tu hai fatto, il secondo caso interviene su ciò che potresti fare. Detto questo è chiaro che l’elemento prognostico si basa sempre su ciò che hai commesso nel passato. L’elemento innovativo della riforma incide sulla fase dello sconto della pena: se hai avuto un esito positivo durante la messa alla prova, vuol dire che decade la pericolosità sociale e quindi non ha più senso un eventuale ricorso alla misura di sicurezza.

In diverse relazioni lei ha sollevato il problema degli internati in carcere. Sì, e la definisco una “detenzione illegale”. Le faccio un esempio concerto. Io mi sono trovato in situazioni su cui il Dap sta cercando di intervenire. Un soggetto aveva finito di scontare la pena e a quel punto – dato il reato commesso nel passato – gli hanno dato una misura di sicurezza detentiva che era la casa di lavoro. La persona era rimasto però nella stessa cella, non è cambiato nulla: stessa identica situazione da detenuto, nonostante formalmente non lo era più. Altra situazione, altrettanto problematica, riguarda la misura di sicurezza psichiatrica. Dopo il superamento degli Opg, sono state istituite le Rems dove permangono alcune criticità molto forti. La principale è il fatto che ci sono andati anche coloro in misura di sicurezza provvisoria, quando, secondo me, le Rems avrebbero dovuto ospitare solo quelli in misura di sicurezza definitiva. Il risultato è, da una parte, la crescita nelle residenze del numero di persone in misura di sicurezza provvisoria, per le quali è difficile quindi predisporre un progetto terapeutico continuativo, e dall’altra, l’affollamento, per cui si è creata una lista di attesa. Qui arriva la disparità: alcuni attendono il posto da liberi, altri invece rimangono in carcere. Ricordo il caso tragico di Valerio Guerrieri che si suicidò in carcere, nonostante dovesse stare in una Rems.

Passiamo al 41 bis. Nelle sue recenti relazioni, ha più volte denunciato l’esistenza delle “aree riservate”. Parto dalla mia considerazione che al momento il 41 bis non deve essere superato. Ritengo che vada tenuto entro quei limiti previsti dalla Corte costituzione e dalla Corte europea: vanno conservate quelle misure che servono per interrompere le comunicazioni con l’esterno, ma non vanno giustificate le misure di tipo afflittivo. La questione dell’area riservata, secondo me, diminuisce di fatto la vivibilità delle persone. Ciò viene giustificato dall’applicazione dell’articolo 32 del regolamento penitenziario, il quale prevede una separazione del detenuto che abbia un comportamento che richiede particolari cautele dal resto della comunità carceraria o l’assegnazione a istituti e sezioni per motivi cautelari. Ma questa norma secondaria non può comportare, di fatto, la riduzione dei diritti prevista dalla norma primaria. Tra l’altro questa misura – visto che prevede una socialità a gruppi di due – sacrifica anche una seconda persona che non è raggiunta dall’articolo 32.

In quest’ultimo periodo ha partecipato a dei convegni organizzati all’estero. Sì, come Garante nazione sono stato invitato a diversi convegni internazionali per fare un confronto con altri Paesi. Pensi che a fine mese sono stato invitato – su indicazione del consiglio d’Europa- dall’Università di Mosca perché alla Russia sono state comminate sentenze sul sovraffollamento carcerario simile alla nostra Torreggiani.

Il 12 marzo un suo rappresentante ha partecipato al meeting internazionale sul monitoraggio delle strutture per anziani, tenutosi in Germania. Lei, come Garante, ha anche questo compito istituzionale in Italia? È importante ricordarlo. In base al protocollo Onu contro la tortura, il mio mandato si estende su quattro grandi aree: il penale, polizia e carabinieri, i migranti come i centri e rimpatri, infine c’è l’area che comprende da un lato il trattamento sanitario obbligatorio e dall’altro le residenze per anziani e disabili. Sebbene queste ultime non siano per definizione luoghi di privazione della libertà come gli istituti penitenziari, possono configurarsi, a determinate condizioni, come luoghi nei quali le persone, pur accedendo in modo volontario, sono sottoposte a forme o modi di limitazione o anche di privazione della libertà. Proprio in merito a queste quattro aree, sto facendo in modo che i miei collaboratori siano proiettati nelle discussioni internazionali. Il contesto internazionale sul tema così aspro e difficile della privazione della libertà – ricordiamo che è la massima espressione della forza dello Stato – è importante per capire come lo stesso problema è culturalmente visto diversamente. Le faccio un esempio. Nel 2000 ero appena arrivato nel Comitato europeo contro la tortura e si discuteva dell’abolizione dei cameroni in carcere, perché determinano una gerarchia di forza. Mi ricordo che avevano appena approvato un provvedimento europeo che imponeva l’istituzione delle celle singole o doppie. Accadde che in Turchia, questa imposizione, determinò lo sciopero della fame dei detenuti. Questo perché i cameroni, in quel caso, determinavano la capacità collettiva di respingere gli abusi che subivano. Ho cominciato a capire che prima di uniformare alcune direttive, bisogna prima studiare le culture locali.

A maggio presenterà in Senato la relazione del secondo anno di attività. Rispetto a quella precedente, cosa è cambiato? Ci sono state due cose rilevanti. Uno, per quanto riguarda i centri per i migranti, riguarda il decreto Minniti che ha aperto diversi problemi strutturali. Sul piano del carcere, invece, c’è stato il “fiato sospeso”. Se pensiamo all’anno precedente, si erano conclusi gli Stati generali e si era avviata la discussione della legge delega sulla riforma. Questo, invece, è l’anno dell’attesa, il tirare il fiato in attesa del decreto. Dal punto di vista del sovraffollamento, secondo me, è stato meno drammatico come sembrava che fosse in alcuni mesi dello scorso anno. Adesso i numeri si sono stabilizzati intorno al numero alto di 58.000. Quello che temo è, appunto, il “fiato sospeso”. Se non dai delle effettive risposte e non passa il decreto, c’è il serio rischio di un ritorno ai problemi passati.