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Mattarella
Pace, quella pace che è «responsabilità di tutta la comunità internazionale». Quella pace che è «il cardine della vita d’Europa», quella pace che, come è accaduto dopo il secondo conflitto mondiale, non è mai «un atto isolato», ma «una costruzione laboriosa, fatta di comportamenti e scelte coerenti e continuative… frutto di una ostinata fiducia verso l’umanità e di senso di responsabilità nei suoi confronti». Parla di pace Sergio Mattarella, pur notoriamente e pienamente consapevole che nessun dubbio è possibile circa aggressore ed aggredito, sulla necessità di soccorrere anche con invio di aiuti militari questi ultimi - che sono dei “resistenti” a tutti gli effetti- perché è vitale ricordare con forza che il fine ultimo - anche di questa guerra- è e deve essere la pace.
La pace come cuore stesso della democrazia, e che come la democrazia va conquistata ogni giorno: questo il senso ultimo del suo ultimo e più rilevante discorso, pronunciato ieri non a caso a Strasburgo, davanti al consesso dell’organizzazione multilaterale europea (46 paesi membri, in rappresentanza di 700 milioni di cittadini) che più è impegnata sul fronte dei diritti umani, tanto da aver fatto germinare la Cedu, la Corte europea che alla tutela di quei diritti è deputata.
A Strasburgo Sergio Mattarella ha declinato di cosa si parla quando si parla di pace. Ridando dignità e senso alla parola, in un dibattito pubblico come quello italiano, nel quale soffiano frange di pensatori con l’elmetto che usano la parola pacifismo come un insulto. «Quanto la guerra ha la pretesa di essere lampo - e non le riesce- tanto la pace è frutto del paziente e inarrestabile fluire dello spirito e della pratica di collaborazione tra i popoli, della capacità di passare dallo scontro e dalla corsa agli armamenti al dialogo, al controllo e alla riduzione bilanciata delle armi di aggressione».
Naturalmente, come «non c’è ragion di Stato che tenga di fronte alla violazione dei diritti umani», e se è chiaro che “nessun equivoco, nessuna incertezza è possibile» sulla responsabilità che «ricade interamente sul governo della Federazione Russa - e non, sottolinea con forza, sul popolo russo la cui cultura fa parte del patrimonio europeo- che ha scelto con l’aggressione di collocarsi fuori dalle regole», la pace è invece «responsabilità di tutta la comunità internazionale». Perché «la pace non si impone automaticamente, da sola, ma è frutto della volontà degli uomini», e per trovarla qualche volta servono anche gli «sforzi creativi» e «il coraggio della rinuncia» cui si richiamavano rispettivamente Robert Schumann e Sandro Pertini. La comunità internazionale dovrebbe insomma ritrovare lo spirito di Helsinki piuttosto che quello di Jalta, «il dialogo e non le prove di forza tra grandi potenze», le quali dovrebbero piuttosto «comprendere di essere sempre meno tali».
Davanti allo scoppio della guerra, ormai giusto due mesi fa, il primo di tutti gli italiani aveva confessato di aver provato quel che han probabilmente provato tutti gli italiani, «allarme, tristezza, indignazione». E di essersi ritrovato a ricordare, nello smarrimento dell’aggressione russa all’Ucraina, la prima strofa di Bella Ciao: «Una mattina, mi son svegliato/ e ho trovato l’invasor…». E di pace ha continuato a parlare Sergio Mattarella, il 28 febbraio alla conferenza sul Mediterraneo di Firenze, e anche quando un mese dopo si erano ormai squadernati tutti gli orrori dell’inferno russo in terra ucraina, nel discorso all’Università di Trieste aveva quasi gridato “Fermiamo la carneficina”.
In mezzo, la visita alla chiesa degli Ucraini d’Italia, la pace evocata perfino per Procida capitale della cultura, un messaggio per il genetliaco dell’Anpi, e soprattutto il discorso per il 25 aprile, preparato da una nota nella quale, cinque giorni prima, ricordava le posizioni assunte nel Consiglio Supremo di Difesa (si ricordi che il presidente della Repubblica è a termine di Costituzione anche il Capo delle forze armate): pace non significa resa, «dobbiamo continuare a mantenere compattezza nell’Unione europea e nella Nato, e continuare ad operare come abbiamo già fatto». E cioè con le sanzioni e l’invio di armi e aiuti, per evitare che Putin «consolidi l’idea che è possibile risolvere le controversie con le aggressioni militari».
Il 25 aprile, poi, aveva già detto che «ogni popolo ha il diritto ad opporsi a un’invasione straniera», e che il popolo ucraino «merita il titolo di resistente». Ma ora serve l’impegno di tutti, di tutta la comunità internazionale, «tutta intera, può e deve essere la garante di una nuova pace». È la grande lezione emersa dal secondo dopoguerra, «la sicurezza, la pace non possono essere affidate a rapporti bilaterali - Mosca versus Kiev tanto più se questo avviene tra diseguali, tra Stati grandi e Stati più piccoli». Un richiamo volto a Bruxelles e a Washington.