«Mi domanda come sto? E come vuole che stia: così, guardo quello che accade con mestizia». Al telefono Massimo Cacciari sembra preda dello sconforto. La pandemia col relativo lockdown sta per entrare nella cosiddetta fase due e oggi, giorno della ricorrenza della Liberazione, forse potrebbe essere il caso di cominciare a programmare il futuro riandando alle radici del nostro passato. Meglio lasciar perdere, dice il filosofo. La dittatura dell’oggi è diventata una specie di camicia di forza che sta per assumere le fattezze di un sudario.

Professore, il 25 aprile ha un destino infausto: è un appuntamento che vive la costrizione di essere divisivo. Molti, sostenendo di voler evitare ogni retorica, adottano un parallelismo tra il dopoguerra e la situazione attuale dove bisogna ricostruire ma l’unità del Paese non decolla...

Cacciari ha un sussulto e tronca a metà la domanda.

«A proposito di retorica direi per prima cosa di lasciar perdere la guerra. Perché i morti di quel conflitto, della Seconda guerra mondiale, sotto le bombe a Londra o delle città tedesche... Lasciamo perdere, la prego. Non sappiamo neanche di cosa parliamo. Quando per il Coronavirus parliamo di guerra per l’attuale situazione di crisi: beh, lasciamo stare. Credo che gli abitanti di Aleppo metterebbero la firma per avere addirittura ogni settimana una epidemia come quella che stiamo vivendo e vivere come vivono gli svizzeri o i tedeschi. Ripeto: lasciano stare. Le guerre sono un altro paio di maniche».

E quindi usare quel tipo di approccio è un errore...

«Guardi qui stiamo perdendo il senso della misura. Sono due mesi che i giornali parlano esclusivamente del virus. La notizia della barca affondata una settimana fa con madri e bambini affogati aveva meno risalto della sospensione del campionato di calcio. Ma dico: siamo impazziti?».

Insomma viviamo un ribaltamento delle priorità.

«Veda lei. Io dico che l’Occidente è in uno stato di follia, ha perso ogni senso della misura, c’è solo il suo ombelico e nient’altro».

E domani è il 25 aprile...

«Appunto. Cosa vuole parlare del 25 aprile? Sono di quelle date drammatiche che sono come spartiacque rispetto a immani tragedie di cui, per nostra fortuna, non abbiamo più la percezione. Tanto è vero che le confondiamo con l'epidemia che stiamo vivendo. Cosa vuole ricordarle adeguatamente? E’ come se avessimo perso uno dei sensi. Come se non avvertissimo più i sapori, non vedessimo i colori. In un Paese come il nostro, in una situazione culturale come la nostra, non c’è più senso parlar di memorie. Laddove esse siano di una tale drammaticità, profondità, grandezza. La verità è che abbiamo perso il senso della tragedia. E viviamo in una perenne commediola».

Perché accade questo, professore: di chi è la colpa?

«E’ la nostra cultura, il modo in cui si è sviluppata la storia italiana da 50 anni a questa parte, e negli ultimi trenta in particolare. Non esiste alcun a responsabilità oggettiva, non c’è un colpevole».

Ma lei sta dipingendo un colossale decadimento, ci saranno pure delle responsabilità...

«Ma non è un decadimento. Direi piuttosto una trasformazione. Un mutamento. Non c’è né regresso né progresso. Ci sono trasformazioni, cambiamenti. Che fanno sì che noi si viva essenzialmente nel presente. La prospettiva di un futuro si è fatta vaghissima, indeterminata».

Infatti. Viviamo un eterno presente senza più alcuna dimensione di lungimiranza, di progettualità.

«Ma guardi, questo vale anche per il passato. E’ lo stesso processo simmetrico. Così come si sfuma ogni definitezza nella nostra idea di futuro, così si sfuma ogni figura del nostro passato. Se lei nota, succede sempre nella Storia che quando emergono grandi progetti per l’avvenire sono proprio quelli i momenti, le fasi un cui il passato viene mitizzato. Il passato assurge a tutto il suo valore esattamente quando si progetta il futuro. Quando nell’antica Roma Augusto inaugura la pax imperiale è proprio quello il momento in cui riemerge il grande mito dell’Eneide, della fondazione della Caput mundi. Nel bene e nel male, è sempre stato così».

Va bene, professore. Possiamo però tornare al tema del 25 aprile? Come nel dopoguerra, anche adesso noi italiani dovremmo impegnarci a “ricostruire” il Paese...

«Macché. Non vede che stiamo andando avanti con provvedimenti di emergenza, senza prospettiva? Si parla di questa Fase 2: come si può parlar di idee per ricostruire qualcosa quando non si sa nemmeno come organizzare la ripartenza, non si sa neppure a quale distanza dobbiamo stare gli uni dagli altri sulle spiagge sotto gli ombrelloni? Cosa vuole che si discuta di Fase 2?».

E allora professore che succederà, cosa ci aspetta nelle prossime settimane?

«Che questa benedetta Fase 2 arriverà a caso. Come a caso stiamo andando avanti da trent’anni.

L’Europa va avanti a caso dalla caduta del Muro e a caso procede dopo l’adozione dell’euro».

A caso?

«Se preferisce, all’inseguimento dell’emergenza. Che si susseguono l’una all’altra perché laddove tu non riesci a prevenire nulla, le emergenze sono destinate a susseguirsi».

Ma al dunque questa data qui, il 25 aprile, è un frutto rinsecchito? Non fa risuonare niente nella mente e nei cuori degli italiani?

«No, niente diciamoci la verità. In qualcuno che ha letto, che abbozza un discorso analogo a quello che le ho fatto, dice qualcosa. Ma alla stragrande maggioranza di questo Paese glielo assicuro: il 25 aprile non dice più nulla».

E allora perché ogni anno si riaccende la polemica destra/ sinistra?

«E’ tutto strumentale. Nessun ragazzo ne sa nulla, è una contrapposizione venata di opportunismo in funzione della battaglia politica quotidiana. Che da noi è sempre stata settaria perché da noi, come diceva Leopardi, non ci sono partiti o organismi politici: ci sono sette. Che oggi si contendono fette di potere».

E a sinistra? Anche a sinistra non si avverte nulla per il 25 aprile?

«Beh, lì c’è una retorica, a volte abbastanza nobile ma niente di più».

Professore ma come può un paese vivere recidendo le radici del proprio passato, radici identitarie peraltro?

«Come sta vivendo adesso. Non facendo nulla di ciò che si dovrebbe fare e il 25 aprile o altre date del genere alcuni memorizzando retoricamente e altri opponendosi a questa memoria per ragioni puramente settarie, di contrapposizione politica contingente».

Professore, cosa ci aspetta, che futuro hanno i ragazzi, i giovani del dopo- pandemia?

«Affidiamoci alle nuove generazioni e alla loro creatività. Può darsi che loro una memoria se la costruiscano, può darsi che ce la facciano. Nei momenti di svolta è possibile che emergano energie che riattingono anche ad un certo passato in modo creativo e non ripetitivo. Può succedere, nessuno può decretare il contrario. Ma al momento ritengo che la situazione, realisticamente, è quella che le ho descritto».

Un deserto di cultura. E di memoria.

«Vede, ciò che mi preoccupa di più non è il deserto. Piuttosto la cattiva frequentazione di questi spazi, fatta di slogan e memorie fittizie. Un fatto molto più pericoloso del deserto.

Non solo perché produce un torsione dei fatti ma soprattutto perché annoia. Che per i giovani è la cosa più tremenda».