Sessant’anni fa, nelle terre rosse dell’Alabama, la Guardia Nazionale marciava al fianco dei diritti civili, oggi gli spara addosso. Era il marzo del 1965; a Selma e poi a Montgomery, i militari riservisti scortavano i passi lenti ma inarrestabili della comunità afroamericana che chiedeva la fine della segregazione razziale guidata dal pastore Martin Luther King. Il presidente democratico Lindon Johnson aveva deciso di proteggere i manifestanti dagli assalti del Ku klux klan e dalla stessa polizia locale, mobilitando la Guardia e impugnando, come Donald Trump, l’Insurrection act.

Quella scelta di Johnson rappresentò uno dei momenti più alti del governo federale a tutela dei diritti civili: lo Stato non proteggeva più i segregazionisti, ma chi chiedeva uguaglianza. Pochi mesi dopo, anche grazie a quella mobilitazione, fu approvato il Voting Rights Act del 1965, una pietra miliare nella lotta contro la discriminazione. L’America sembrava sul punto di mantenere almeno una delle sue promesse originarie: che libertà e giustizia fossero davvero per tutti. Oggi, quello stesso strumento viene utilizzato da un presidente in carica per reprimere chi diritti non ha. E nella dissolvenza incrociata tra questi due passaggi si consuma la parabola del sogno americano, in un clima cupo che evoca gli spettri della guerra civile.

Ordinando l’invio della Guardia Nazionale in California per sedare le proteste pro-migranti, la Casa Bianca entra in rotta di collisione con il governatore democratico Gavin Newsom responsabile dell’ordine pubblico per lo Stato. La decisione di Trump, motivata da presunte minacce alla sicurezza nazionale, rappresenta una forzatura istituzionale dalle conseguenze potenzialmente gravissime. Il sindaco di Los Angeles, Karen Bass, ha parlato senza mezzi termino di «una militarizzazione della città in pieno giorno, degna di un regime autoritario».

Le autorità californiane denunciano infatti un atto di occupazione illegittima una «provocazione» e uno «spettacolo» da parte dell’amministrazione, mentre Newsom annuncia che la California farà causa al presidente: «La sua decisione è illegale e immorale, lo trascineremo davanti ai giudici». Pronta la replica di Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca per la quale la colpa è tutta del governatore dem: «Newsom non ha fatto nulla mentre scoppiavano disordini violenti a Los Angeles per giorni ed è incapace di difendere la sua città».

Un clima deleterio, al punto che nei media d’oltreoceano ha circolato la notizia, davvero pazzesca, del possibile arresto di Newsom, evocato dallo “zar delle frontiere” Tom Homan, notizia smentita in serata dallo stesso Homan: «Mi riferivo a uno scenario teorico, non abbiamo mai discusso realmente l’arresto di Newsom».

Certo, Donald Trump non è il primo presidente a mobilitare la Guardia Nazionale per motivi di sicurezza nazionale: lo fece anche George H.W. Bush nel 1992, durante le rivolte di Los Angeles innescate dall’assoluzione dei poliziotti che, senza alcun motivo, l’anno precedente avevano pestato a sangue il tassista nero Rodney King. Ma in quel caso si trattava di rivolte colossali, con bollettini e bilanci da vera e propria guerriglia urbana: 65 morti, 2300 feriti, 12mila arresti, 3mila edifici danneggiati.

Le proteste di questi giorni, a parte qualche piccola scaramuccia sono state contenute e in ogni caso tranquillamente alla portata delle forze dell’ordine locali. E invece ecco le divise, i mezzi blindati, le pattuglie a presidiare incroci e quartieri-ghetto. È uno scenario tutto nuovo, dove lo Stato federale si comporta come un’autorità coloniale in casa propria disconoscendo i poteri concessi dalla costituzione ai singoli Stati.

Il cortocircuito simbolico è difficile da ignorare. Sessant’anni fa, la Guardia Nazionale veniva mandata a sud per proteggere chi era invisibile, per dare voce agli ultimi. Oggi, viene mandata a ovest per zittire chi difende quegli stessi soggetti. La traiettoria magari un po’ retorica del sogno americano, che sembrava avanzare tra conquiste imperfette e ricadute cicliche, ora pare aver preso una curva grottesca, una regressione travestita da fermezza. E in California, lo scontro fra autorità statale e potere esecutivo federale fotografa una frattura istituzionale pericolosa. Con il timore di vedere un Paese che usa la forza contro i suoi stessi cittadini, nel nome della sicurezza, senza che una vera insurrezione sia mai avvenuta.

Viene da chiedersi allora, con un po’ d’amaro in bocca, se davvero non ci sia stato un momento nella storia recente degli Stati Uniti, uno solo, in cui l’intervento tempestivo della Guardia Nazionale sarebbe stato non solo legittimo, ma addirittura doveroso. E la monte non può non correre a quel 6 gennaio del 2021, quando un gruppo di fanatici armati e travestiti da patrioti assaltava il Campidoglio a Washington, seminava panico, minacciava la democrazia. Lì sì, che servivano le divise. Lì sì che bisognava proteggere la democrazia. Ma quel giorno, la Guardia nazionale restò a distanza. Ordini tardivi, esitazioni, silenzi. Forse perché l’attacco non veniva dal nemico esterno, ma dai seguaci di Donald Trump incapace come loro di accettare la sconfitta elettorale e il passaggio di poteri con Joe Biden.