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Tre morti al giorno, 1176 in dodici mesi: è bollettino rosso-sangue delle persone uccise per mano della polizia negli Stati Uniti. E il 2022 ha segnato un nuovo record come illustra il rapporto annuale di “Mapping Police Violence” (Mpv), un’associazione che dal 2013 fotografa gli atti di violenza commessi dalle forze dell’ordine in tutto il territorio federale. «Le cifre indicano in modo inequivocabile che nell’ultimo decennio la brutalità della polizia è stata la più elevata dagli anni 80 del secolo scorso», tuona Samuel Sinyangwe, fondatore di Mpv.
Dunque il “sacrificio” di George Floyd, l’afroamericano strangolato dall’agente Derek Chauvin nel maggio del 2020 a Minneapolis, non è servito a nulla. Come non sono servite le centinaia di manifestazioni del movimento black lives matter che hanno denunciato le discriminazioni e gli abusi commessi quotidianamente dalla polizia statunitense portandole in cima all’agenda politica nazionale.
Uno degli aspetti più inquietanti del rapporto riguarda infatti la dinamica degli omicidi: oltre due terzi delle persone uccise non stava commettendo crimini violenti o non stava commettendo crimini in assoluto mentre un terzo di questi ultimi è stato colpito alle spalle mentre stava fuggendo. «La gran parte degli interventi che hanno causato delle vittime erano controlli stradali o blitz a domicilio per sedare liti domestiche», spiega Sinyangwe, sottolineando la gratuità della violenza e il suo carattere aleatorio dal punto di vista geografico.
Non esiste in tal senso nessuna correlazione tra i tassi di violenza urbana in generale e i reati di polizia: «Io vivo a Orlando in Florida che è al cinquantesimo posto per crimini violenti ma sale al 12esimo per quelli commessi dalle forze dell’ordine».
In realtà un miglioramento c’è stato e riguarda il calo significativo di episodi nei grandi agglomerati metropolitani.
Non si tratta dunque di un dato sociologico ma piuttosto di un elemento “politico”, ossia legato alle scelte compiute dalle diverse amministrazioni municipali nei confronti dei rispettivi dipartimenti di polizia. In particolare i sindaci e i governatori democratici hanno riscritto molti regolamenti e protocolli di intervento, limitando i poteri degli agenti e aumentando la sorveglianza da parte delle autorità.
E in effetti il rapporto di “Mapping violence police” indica che nelle città governate da sindaci progressisti i reati di polizia sono in calo da oltre due anni. Purtroppo la media nazionale vola in alto per l’escalation avvenuta nelle zone rurali dove la sicurezza è affidata a sceriffi di contea dal grilletto facile e dalla scarsa preparazione professionale: circa il 40% delle vittime proviene da lì, dieci anni fa era soltanto il 25%.
Senza sorprese invece la composizione etnica dei morti, per lo più cittadini di origine afroamericana o ispanica i quali rischiano di venire freddati da un agente tre volte di più di una persona di pelle bianca.
Secondo Mpv il problema è a monte del sistema penale d’oltreoceano noto per l’ipertrofia carceraria: «Occorre ridurre drasticamente gli arresti per reati non violenti, che rappresentano l’80% del totale: se qualcuno è un senza tetto non deve andare in prigione ma in un centro di accoglienza, se qualcuno è un tossico dipendente non deve andare in prigione ma in una comunità di recupero, se qualcuno ha dei problemi mentali non deve andare in prigione ma da uno psicologo per farsi curare» prosegue Sinyangwe, evidenziando come gli Stati Uniti abbiano la popolazione carceraria più grande del pianeta con oltre due milioni di detenuti smistati in 4500 penitenziari secondo i dati del 2019.