Il G7 condanna l’Iran all’unanimità ma allo stesso tempo mette in guardia Israele, chiedendo al premier Netanyahu di non reagire all’attacco dal cielo della repubblica sciita per evitare l’escalation. Da Washington a Londra, passando per Parigi e persino per Mosca, in questo momento la parola chiave è «moderazione», tutti temono un effetto domino e un allargamento incontrollato del conflitto.

Il governo di Tel Aviv ha annunciato che risponderà «certamente», e che «non è tempo di de-escalation», ma non fornisce ulteriori dettagli, riservandosi di stabilire «come, dove e quando» colpire. Gli alleati occidentali premono invece su una risposta di altro genere, come nuove e più severe sanzioni economiche nei confronti del regime teocratico puntando all’isolamento invece che alla rappresaglia, ma anche nel campo diplomatico ci sono divergenze; ad esempio Tel Aviv chiede di inserire i Guardiani della rivoluzione (i Pasdaran) nella lista delle organizzazioni terroriste, posizione non condivisa da diversi partner.

È stato un attacco storico, quello di domenica, perché mai l’Iran aveva colpito lo Stato ebraico dal proprio territorio, fino ad oggi aveva infatti utilizzato i suoi proxy regionali, da Hezbollah agli Houtu yemeniti. Un’interposta persona che aveva garantito relativo equilibrio anche all’interno di un conflitto ostinato come quello mediorientale. Ma dal punto di vista bellico l’azione iraniana lascia perplessi e, più che un atto di guerra, ricorda una esercitazione militare congiunta. A partire dalla tempistica.

L’intelligence americana aveva infatti avvertito Tel Aviv con ampio anticipo, indicando con precisione la data dell’attacco, circostanza che ha alimentato scetticismo sulla concretezza delle minacce. E invece Teheran ha seguito il copione e colpito proprio in quella finestra temporale, dando tutto il tempo a Israele di organizzare le proprie difese. La tecnica impiegata ricorda quella della Russia nella guerra contro l’Ucraina: sciami di droni e qualche missile da crociera per saturare i sistemi anti-aerei del nemico, ma solo dal punto di vista teorico perché nei fatti il 99% dei droni è stato intercettato dallo scudo israeliano Iron Dom e dell’aviazione britannica, americana e della Giordania, molti sono stati abbattuti addirittura nello spazio aereo iracheno ancora a migliaia di chilometri da Israele.

Lascia perplessi anche la giostra delle dichiarazioni successive, in particolare quelle di Teheran, l’ambasciatore alle Nazioni Unite ha detto che per loro «la questione e chiusa», che l’attacco di domenica era una reazione al bombardamento dello scorso 2 aprile alla sede diplomatica iraniana a Damasco in cui hanno perso la vita nove persone, tra cui il comandante militare Mohammad Reza Zahedi. In altri termini si tratta di «legittima autodifesa» e da questo momento le armi possono pure tacere; una comunicazione che sembra rispondere a logiche interne di propaganda più che a una strategia militare.

La reazione degli Stati Uniti è stata ugualmente minimalista; il presidente Biden ha scelto infatti il basso profilo, evitando discorsi pubblici ed esprimendosi soltanto nella cornice del G7. Secondo quanto scrive il quotidiano Usa Politico, l’entourage di Biden vuole solo gettare acqua sul fuoco e far sgonfiare la crisi con l’Iran: «Un discorso televisivo alla nazione avrebbe alimentato la tensione e sarebbe stato visto da Teheran come una provocazione».

A Tel Aviv il gabinetto di guerra è riunito in seduta permanente in attesa di delineare le modalità della risposta, il che non pare affatto semplice; da una parte c’è la propaganda di guerra e la necessità di mostrarsi forti di fronte allo storico avversario, dall’altra la comprensibile preoccupazione di allargare il fronte dei combattimenti mentre il grosso dell’esercito è impegnato nel conflitto contro Hamas nella Striscia di Gaza con decine di ostaggi israeliani ancora nelle mani del movimento islamista palestinese.

Il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha rivolto un appello al centrista Benny Gantz (entrato nell’esecutivo di guerra dopo gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre) allo scopo di far cadere il governo Netanyahu, dominato dai nazionalisti di estrema destra: «Netanyahu deve andare a casa, è l’unico modo per garantire sicurezza e un futuro alla nostra nazione».

Se è vero che anche senza il sostegno di Ganz la coalizione può disporre ancora di una maggioranza parlamentare seppur minima, l’opinione pubblica israeliana sembra sempre più stanca dei propri leader. Stando agli ultimi sondaggi tre quarti degli elettori vogliono le dimissioni del premier e circa il cinquanta per cento è d’accordo per le elezioni anticipate.