C’era una volta la Fiat e Sergio Marchionne è il manager il cui nome resterà nella storia indissolubilmente legato alla trasfor-mazione del simbolo stesso del capitalismo italiano. Paragonarlo a Vittorio Valletta, il manager che rese grande l’azienda torinese, ha senso non solo e non tanto perché Marchionne ha esercitato un potere assoluto paragonabile a quello del manager di Sanpierdarena ma perché i loro regni rappresentano l’alba e il tramonto dell’industria italiana dell’auto. I due avevano forse anche qualcos’altro in comune. Valletta era figlio di un ufficiale perito nella grande guerra, Marchionne è figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada dopo la pensione. Entrambi, inoltre, hanno usato a man bassa il pugno di ferro nelle relazioni industriali. Valletta è il manager che inaugurò negli anni ‘ 50 la pratica dei reparti confino per gli operai più sindacalizzati, che procedette con migliaia di licenziamenti e dichiarò guerra con ogni mezzo, molti dei quali sporchi, alla Fiom riuscendo a metterla il sindacato metalmeccanici della Cgil in ginocchio. Marchionne la Fiom era riuscito addirittura a cacciarla dagli stabilimenti Fca, grazie alla norma che consentiva la rappresentanza sindacale solo a quelli che avessero firmato contratti, all’uscita da Confindustria e alla proposta di uno specifico contratto di lavoro. Prendere o lasciare. Poi, nel 2013, si mise di mezzo la Corte costituzionale, dispose il rientro della Fiom ma Marchionne riuscì lo stesso a tenerla adeguatamente confinata.

Anche la dedizione al lavoro è simile. Valletta attaccava alle 8.30 e non smontava prima delle 22.30. Arrivava a casa a mezzanotte e se la cavava con una minestra e un po’ di formaggio. Era un tipo frugale. Alle 5 era di nuovo in piedi. Marchionne, a Fabio Fazio che gli chiedeva se davvero lavorasse 20 ore al giorno dormendo pochissimo rispose: «Non esageriamo: 18 ore al giorno». Ma che i suoi ritmi fossero tanto martellanti quanto quelli di Valletta è confermato da tutti, così come la tendenza a occuparsi di tutto. Appena nominato ad, nel 2004, con molta esperienza e tre lauree ma nel gotha dei manager un quasi sconosciuto, prese a perlustrare centimetro per centimetro gli stabilimenti: «Come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai se li faccio vivere in stabilimenti così degradati?».

Nell’abbigliamento, in compenso i due non avrebbero potuto essere più diversi: Valletta molto formale con l’eterno doppio petto grigio, Marchionne con quei maglioni che ne erano diventati il marchio. Ma è anche vero che il manager del XXI secolo passava ore in aereo e ci teneva pertanto a qualche comodità. Quello del XX secolo aveva dimestichezza soprattutto con i vagoni letto, e tra i pochi lussi che si concedeva c’era la colazione ad attenderlo sul binario di Termini, quando arrivava a Roma per dettare ai ministeri competenti gli ordini del caso.

Per molti versi, i due principali nomi della parabola Fiat sono stati opposti. Valletta alternava il bastone con la carota e forse raggiunse risultati maggiori con la seconda che con il primo. Gli operai Fiat erano i più pagati d’Italia, la loro mutua era invidiabile e invidiata, per i figli degli operai c’erano le colonie estive. «Anche l’attività sportiva aveva il suo peso: un terzo dello sport torinese passava per la Fiat, soprattutto gli sport popolari come il ciclismo o il canottaggio», ricordava qualche anno fa il sociologo ed ex operaio Fiat Aris Accornero.

Era sempre Accornero a tracciare un paragone tra la Fiat di Valletta e quella di Marchionne: «L’aziendalismo di Marchionne è solo quello lacrime e sangue. Promette solo che, se i lavoratori saranno buoni, riceveranno aumenti in busta paga. Riconosciuti oltretutto attraverso sgravi fiscali sugli straordinari». E’ possibile che all’inizio, quando Fassino lo definiva «manager socialdemocratico» Marchionnne avesse in mente un percorso simile. Ma ha cambiato strada molto presto, forse anche perché si è accorto rapidamente di non dover fare i conti, come Valletta e a maggior ragione il terzo grande manager Fiat, Cesare Romiti tra i ‘ 70 e gli ‘ 80, con un movimento operaio agguerrito e temibile.

Se le differenze sono notevoli, non mancano le somiglianze. Marchionne è il comandante che ha portato la Fiat fuori da Confindustria. Senza arrivare a tanto Valletta aveva il medesimo atteggiamento di altera sufficienza e sostanziale disinteresse per l’associazione degli industriali. La stessa idea di un contratto separato la aveva già avuta e praticata Valletta.

Ma su un punto identità e contrapposizione risaltano contemporaneamente. Sia il Professore che Sergio Marchionne hanno risollevato l’azienda da una crisi gravissima. Direttore generale dal 1928, ad dal ‘ 39 Valletta acquisì poteri totali nel 1946, in una fase difficilissima, quando fu eletto per acclamazione presidente. Marchionne, arrivato al vertice quando la Fiat perdeva un paio di milioni d’euro al giorno, aveva concentrato nelle sue mani lo stesso potere assoluto. Entrambi sono riusciti nell’impresa di portare l’azienda fuori dai gorghi. Ma Valletta era davvero convinto che se l’interesse della Fiat era interesse dell’Italia, anche l’interesse del Paese era interesse della Fiat, e agiva di conseguenza. Per Marchionne l’unico interesse a cui guardare è sempre stato solo quello degli azionisti. Sotto la sua gestione i dividendi hanno raggiunto cifre stratosferiche. I dipendenti, in Italia, sono passati da 120mila a 29mila. Stili diversi, o forse solo modelli di capitalismo diversi. I quali del resto si riflettevano nelle retribuzioni. Valletta guadagnava 12 volte più di un suo operaio e Adriano Olivetti trovava la cosa scandalosa. Marchionne guadagnava 2mila volte più di un operaio Fiat, anzi Fca.