Settant’anni fa, il 14 luglio 1948, erano da poco passate le 11.30 quando Palmiro Togliatti, scortato solo dalla compagna Nilde Jotti, lasciò Montecitorio avviandosi verso l’uscita secondaria di via della Missione. Ad aspettarlo, con una Smith calibro 38 comprata al mercato nero del suo paese, Bronte, provincia di Catania, per 250 lire, c’era un ragazzo mezzo squilibrato, Antonio Pallante, arrivato nella capitale col preciso obiettivo di uccidere il massimo leader del Pci. Pallante non era un fascista. Si definiva liberale, era corrispondente dalla Sicilia del settimanale dell’Uomo qualunque ed era ossessionato dall’anticomunismo. «Ero giovane. Ero esasperato. Ritenevo i comunisti responsabili della morte di molti italiani. Elaborai l’idea: tagliare alla radice il problema, uccidere Togliatti». A Roma era arrivato qualche giorno prima e aveva preso alloggio in un’infima pensione vicino Termini. Disponeva solo di 5 proiettili da tirassegno, comprati per 25 lire in un’ar-

Smeria siciliana. Secondo le sue ricostruzioni, rilasciate al Giornale molti decenni più tardi, a salvare ' il Migliore' fu proprio la scarsa potenza di quei proiettili che non erano fatti per uccidere.

Il progetto iniziale era colpire all’interno di Montecitorio e per questo, grazie all’interessamento di un deputato siciliano, si era procurato il pass per entrare alla Camera. Si era reso conto che colpire all’interno del palazzo non sarebbe stato possibile ma aveva anche registrato l’abitudine del leader comunista di uscire dalla porta di via della Missione. Alle 11.40 del 14 luglio si fece trovare pronto. Vide uscire prima la Jotti, dietro di lei il segretario del Pci.

Pallante sparò tre colpi. Ferì il suo obiettivo a una gamba e al polmone. Il colpo fatale doveva essere il terzo, quello che raggiunse Togliatti alla testa ma non arrivò a profondità sufficiente. La Jotti cominciò a urlare “Hanno ucciso Togliatti”, i deputati si riversarono fuori dalla Camera, la notizia arrivò velocissima in tutti i quartieri di Roma e una folla immensa si concentrò al centro, tra piazza Venezia e piazza Colonna. Il leader della Cgil Di Vittorio, appena tornato da San Francisco, proclamò lo sciopero generale. Il Pci chiese le dimissioni dell’intero governo, una scelta che non piacque al ferito, una volta ripresosi. Da politico esperto qual era, il Migliore sapeva che la testa di De Gasperi non la si sarebbe potuta ottenere, quella del ministro degli Interni, il temuto Mario Scelba, forse sì.

Non c’era nessun complotto dietro le rivoltellate di Pallante, così come nelle ore successive all’attentato non ci sarebbe stata nessuna scelta insurrezionale del Pci nei violentissimi scontri che in moltissime città italiane provocarono una trentina di morti ( ma studi più recenti registrano un numero di vittime più limitato: 17) tra cui nove poliziotti, alcuni dei quali finiti a coltellate o a mani nude.

C’era però una tensione montante che esplose in quel luglio. Meno di tre mesi prima, il 18 aprile, il Fronte composto da Pci e Psi era stato sconfitto nelle prime elezioni politiche della Repubblica. Non era stato, come si pensa oggi, un risultato previsto. Al contrario, la base rossa, dopo la cacciata del Pci dal governo della primavera 1947, aspettava quelle elezioni come il momento della rivincita e della resa dei conti. La frustrazione fu fortissima, l’idea di rovesciare il verdetto con un colpo di mano insurrezionale era tanto distante dai progetti del vertice rosso quanto diffusa alla base.

La guerra fredda intanto montava nel mondo e il riflesso sul fronte italiano era immediato. Il 10 luglio, quattro giorni prima di essere colpito, proprio Togliatti, nel dibattito sul piano Marshall era stato perentorio: ' Se il nostro Paese dovesse essere trascinato sulla strada che porta alla guerra, sappiamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde con la rivolta, con l’insurrezione...». Non era retorica e non lo era neppure la replica che il 13 luglio scrisse sul giornale del Psdi, Umanità , il deputato Carlo Andreoni: «Prima che i comunisti possano consumare per intero il loro tradimento... il governo e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non solo metaforicamente». Qualche giorno dopo, col Paese in fiamme, il leader del partito, Saragat, lo obbligherà a dimettersi.

Proprio perché questo era lo scenario, la prima preoccupazione dei dirigenti del Pci, anche prima che Togliatti stesso desse indicazioni precise in quel senso dal suo letto d’ospedale, fu di tenere i nervi e le masse a posto. Lo stesso dirigente più vicino all’ala dura e agli ex partigiani che non vedevano l’ora di riprendere le armi, Pietro Secchia, fu solerte nel bocciare tra i primi ogni tentazione insurrezionale.

A tutt’oggi è impossibile dire come siano partite le manifestazioni violentissime che incendiarono per giorni l’Italia. Nessun dirigente né del Pci né della Cgil invocò la piazza. Fu la base a fare da sola, e forse giocò un ruolo l’interpretazione ambigua che fu data del telegramma inviato da Stalin appena raggiunto dalla notizia. Baffo- ne si diceva apertamente «contrariato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile e brigantesco attentato».

Che fosse una critica sferzante alla mancata vigilanza del partito era evidente. Ma molti quadri ci videro anche il segno che la strada del parlamentarismo per Mosca era ormai tramontata. Ma nessuno diede l’ordine di tirare fuori le armi nascoste dopo la fine della guerra o di affrontare la polizia su un piano che sfiorò quello della guerra civile. Ma fu così e i fatti lo dicono d soli.

A Roma la manifestazione si spostò verso piazza Esedra e negli scontri furono uccisi due manifestanti, come a Napoli. A Taranto lo sciopero dei cantieri navali finì con una battaglia nella quale persero la vita un manifestante e un poliziotto. A Livorno furono svaligiate le armerie e negli scontri a fuoco furono uccisi un dimostrante e un poliziotto. In tutta l’area di Genova la protesta acquistò caratteri insurrezionali, con alcune mitragliatrici issate sulle barricate. Anche qui ci furono vittime, come a Bologna e a Porto Marghera. Sul Monte Amiata l’episodio più noto, con l’attacco alle sedi della Dc da parte dei minatori, l’occupazione della centrale telefonica, l’uccisione di due agenti.

Nelle città operaie la spinta fu anche più forte. Alla Fiat operai armati di mitra Sten si presentarono nello studio di Valletta e lo informarono che la fabbrica era occupata. Il massimo dirigente Fiat, imperturbabile, promise di licenziarli dopo lo sgombro. Fu tenuto sotto sequestro per giorni e per liberarlo dovette arrivare da Roma, su un elicottero messo a disposizione dalla Fiat, il dirigente del Pci Celeste Negarville. A Milano furono occupate la Breda, la Motta e la Pirelli mentre gli agenti di polizia venivano disarmati di fronte alle fabbriche. L’insurrezione non fu mai neppure presa in considerazione, e del resto sarebbe stata una scelta catastrofica. Ma fermare la piena, per il Pci, non fu facile. Ricordava anni dopo Rossana Rossanda: «Mi fu detto di andare all’Autobianchi per spiegare agli operai che non bisogna puntare su uno sciopero generale a oltranza. Convincere la piazza fu molto arduo. Resta una delle prove più dure della mia vita politica».

La fiammata si spense in parte perché Togliatti, salvato da un intervento chirurgico del professor Valdoni, rassicurò i militanti sulle sue condizioni di salute e diede di fatto disposizioni per fermare la protesta. In parte perché si era trattato davvero di un’esplosione di violenza spontanea e priva di progetto, ma in parte anche grazie a Gino Bartali, il ciclista. Nella tappa dell’allora seguitissimo Tour de France il campione italiano partiva con 22 minuti di svantaggio rispetto alla maglia gialla, il francese Luison Bobet. Si dice da sempre che quella mattina De Gasperi e il giovanissimo Andreotti abbiano chiamato la squadra italiana per chiedere uno sforzo sovrumano per salvare la situazione. Bartali vinse la tappa recuperando lo svantaggio e affermandosi con 19 minuti di scarto. I giornali titolarono: “Bartali batte Di Vittorio”.

Andreotti ha sempre negato che la vittoria del ciclista italiano abbia pesato sull’esito della sanguinosa rivolta. Di certo fu sfruttata al meglio dalla propaganda e qualche effetto, anche se non delle proporzioni amplificate dalla leggenda, lo ebbe.

Antonio Pallante fu condannato a 13 anni e 8 mesi. Ne scontò 5, poi uscì grazie a un’amnistia. È ancora vivo, ultranovantenne.