«È ora che l’era della irresponsabilità finisca». La Presidente della Camera, Laura Boldrini, che oggi interverrà all’incontro organizzato dal Cnf con le avvocature del G7, è molto dura contro il linguaggio dell’odio e contro le fake news. Il tempo è scaduto. E per questa ragione vede con grande favore l’appuntamento di oggi.

Cosa pensa di questo evento? E che importanza può avere?

A me sembra il positivo segnale di una consapevolezza che finalmente sta crescendo. Si comincia a capire che il problema del linguaggio d’odio non è più soltanto tema per i sociologi della comunicazione. E’ questione che tocca sempre più da vicino la vita di molte persone, e dunque se ne devono occupare le istituzioni e le professioni, in particolare le professioni che hanno per mandato la tutela dei diritti e la difesa della legalità. E mi sembra importante l’approccio sovranazionale, come sovranazionali sono la rete e i giganti digitali che la dominano.

Qual è secondo lei l’origine del linguaggio dell’odio?

L’hate speech non nasce certo oggi. Il disprezzo per il diverso, l’attacco rabbioso all’avversario considerato come un nemico da cancellare, sono fenomeni tra i più tipici della storia dell’umanità, purtroppo. Ma la civilizzazione è consistita appunto nel porre un freno, nel saper dissentire senza bisogno di annientare, nel riconoscere dignità anche a chi non la pensa come noi. Ora invece questo doveroso senso della misura nel linguaggio viene liquidato da troppi come una forma di ipocrisia. Va di moda sbeffeggiare il politically correct. In questa deriva c’è una responsabilità pesante di una certa politica, che ha “sdoganato” l’odio spacciandolo per linguaggio finalmente diretto e non paludato, capace di parlare alla pancia e non solo al cervello. E questo ha provocato un imbarbarimento del quale ora misuriamo le conseguenze.

Il web, e in particolare i social network, come hanno contribuito ad amplificare il fenomeno dell’odio, dell’insulto, a volte anche della minaccia?

Amplificare, dice bene, perché non possiamo dare al web tutte le responsabilità. Né dobbiamo mai dimenticare quanto di positivo la rete ci abbia dato in termini di informazione, cultura, dialogo interpersonale, partecipazione. Ma certo i social network hanno dato al linguaggio d’odio, alla diffamazione, una pervasività capillare mai possibile prima. E per troppo tempo hanno beneficiato di una considerazione distratta o benevola, per la quale si trattava di un “mondo a parte”, nel quale era da considerare “inaccettabile bavaglio” quello che nel mondo offline è invece doveroso rispetto della legge. E’ ora che l’era dell’irresponsabilità finisca.

Secondo alcuni intellettuali una delle cause è da ricercare nella crisi della politica: è venuta cioè meno la mediazione, tra rabbia sociale ed espressioni di questa rabbia, rappresentata da partiti e ideologie. Che cosa ne pensa?

La disintermediazione ha investito tutti gli ambiti. Pensiamo di poter fare a meno dei giornalisti, perché “tanto in rete le notizie ci sono”. Pensiamo di poter fare a meno dei medici, con le conseguenze che stiamo vedendo nel ricorso alle vaccinazioni. E tanta politica ci ha messo del suo, nel suscitare rabbia e distacco: i fenomeni di corruzione, spreco, clientelismo non sono mica un’invenzione della rete. Ma c’è una responsabilità della cattiva politica, come ho detto, anche nel proliferare del linguaggio d’odio, perché ha legittimato l’insulto - che in privato c’è sempre stato - come componente “ordinaria” del dibattito pubblico.

Tra i nemici principali del linguaggio d’odio ci sono le donne, soprattutto se affermate, e i migranti. Partiamo dalle donne. Perché secondo lei tanto odio?

Perché, nonostante le battaglie di generazioni di donne, restiamo una società misogina. Le oscenità, le volgarità, gli stupri compiuti e quelli minacciati ne sono la manifestazione più insopportabile ed evidente. Ma le percentuali di presenza femminile nei ruoli di comando parlano, in termini meno crudi, della stessa avversione. E l’uso del corpo della donna in tv o nella pubblicità - lo ripeto a costo di prendermi di nuovo l’accusa di moralista o “bacchettona” è sempre funzionale a quel vecchio ma resistente modello di società.

I migranti. Come e chi secondo lei ha costruito il migrante come l’immagine del nemico numero uno, del capro espiatorio di tutti i mali?

Il diverso, il lontano, quello con la pelle differente dalla mia, è sempre stato il capro espiatorio perfetto. Ma la novità sta, ancora una volta, nella cattiva politica: quella che ha imparato velocemente quanto sia redditizia, soprattutto in tempi di crisi economica e sociale, l’“imprenditoria della paura”, e che soffia senza scrupoli sul fuoco dell’odio, pur di lucrare qualche voto in più. Anche a costo di lacerare una società e alimentare tensioni.

In che cosa la sinistra ha sbagliato rispetto al linguaggio dell’odio: lo ha trascurato, ha trascurato le periferie, oppure non ha saputo contrapporre al linguaggio dell’odio un’altra narrazione e un altro immaginario?

Di sicuro c’è stata scarsa attenzione su più livelli. Lei parla delle periferie. Le posso dire che, nel viaggio che sto facendo nelle periferie italiane da quasi due anni mi ha colpito la quasi totale assenza sul territorio di rappresentanze di partito, in particolare di quei partiti che della lotta alle disuguaglianze sociali dovrebbe fare la loro bandiera. E poi c’è stata una disattenzione altrettanto clamorosa alla rete, alle sue potenzialità, ai suoi rischi. Politicamente parlando, è stata lasciata a lungo al sostanziale monopolio dei Cinque Stelle. Questo ritardo lo si paga.

Lei spesso è vittima di attacchi di questo tipo. Quale è la sua reazione, come donna e come rappresentante delle istituzioni? 

Essere bersaglio di insulti sanguinosi e oscenità malate non fa piacere a nessuno. Ma se ho scelto di porre il tema all’attenzione del dibattito pubblico non è stato per un fatto personale. Come Presidente della Camera so bene di avere la possibilità di difendermi efficacemente anche senza clamore. L’ho fatto piuttosto per le tante e i tanti che, meno noti di me, si trovano a subire trattamenti simili ai miei avendo molti strumenti in meno per difendersi. L’ho fatto pensando ai ragazzi e alle ragazze che incontro nelle scuole e che mi raccontano cosa significhi essere vittima di cyberbullismo. Quindi ho ritenuto giusto - come donna, come madre e come rappresentante delle istituzioni - reagire anche denunciando gli autori dei messaggi violenti: usando gli strumenti giuridici dei quali disponiamo per dire ai giovani che in uno Stato di diritto i cittadini non sono lasciati soli e possono difendersi senza ricorrere ad altro odio. Con quale credibilità potrei parlare loro, se non dessi l’esempio?

Si è mai sentita sola ad affrontare questa battaglia?

No. Ogni volta che ho posto pubblicamente la questione sui social, in tv, sui giornali ho trovato un consenso straordinariamente diffuso. Il post che ho pubblicato sulla mia pagina Facebook un mese fa - per dire # AdessoBasta e annunciare che d’ora in poi procederò in sede legale contro i messaggi violenti, diffamatori, minacciosi che ricevo - ha ottenuto 6 milioni e mezzo di visualizzazioni, un quarto degli iscritti al social di Zuckerberg in Italia. Ho ricevuto più di 45 mila commenti, quasi tutti di solidarietà e di sostegno. A riprova del fatto che il problema di una deriva violenta dei social c’era, ma istituzioni e politica stentavano ad accorgersene.

Che cosa fare: la sfida culturale. Di quali strumenti ci dobbiamo dotare, dove e come si può e deve agire?

Bisogna armarsi di pazienza, perché c’è da fare un lavoro in profondità, che quindi non potrà dare risultati domattina. Ma bisogna partire mettendo insieme tutti i soggetti che è necessario coordinare. Come abbiamo fatto nel primo progetto di educazione civica digitale, che lanceremo tra poche settimane insieme alla Ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli. E’ rivolto agli studenti, perché loro sono i più esposti. E nel progetto sono coinvolti, con la Camera e il Miur, le imprese di Confindustria, perché devono smetterla di supportare con la pubblicità i siti che incitano all’odio o che spacciano fake news; la Rai, perché il servizio pubblico può contribuire ad una campagna di consapevolezza sui rischi dell’hate speech; la Fieg, perché i giornali devono saper marcare sempre di più la distanza dai produttori di bufale. E soprattutto ci saranno Facebook e Google: per i padroni della rete è scoccata l’ora della responsabilità, non possono più cavarsela dicendo di essere autostrade che non hanno responsabilità sui veicoli che le percorrono. Se in giro c’è qualche auto- killer, anche il gestore dell’autostrada se ne deve preoccupare.

Le leggi. In molti chiedono nuovi interventi legislativi per arginare questa deriva sia rispetto all’odio e agli insulti sia rispetto alla diffusione ormai incontrollata delle fake news. Quali possono essere?

Distinguerei le fake news dal linguaggio d’odio. Molto spesso le fake news sono create per scatenare odio, ma dal punto di vista giuridico non è sempre facile distinguere la burla dall’invenzione dolosa. Ed è pericoloso immaginare un “Ministero della verità” che certifichi la fondatezza di tutto ciò che circola sulla rete. Prima di arrivare ad una legge ad hoc, come hanno fatto in Germania, credo che dovremmo usare tutti gli strumenti di legge già disponibili per perseguire con la dovuta durezza gli insulti e le espressioni d’odio. Seguendo un principio semplice e fondamentale: ciò che è reato offline deve essere considerato reato anche online, e colpito di conseguenza. Questo mi sembra il punto vero e decisivo. E spero che la magistratura italiana si muova con tutta la determinazione che il tema richiede. In uno Stato di diritto non possono esistere zone in cui i violenti la fanno franca e sanno di rimanere impuniti.

Cosa risponde a chi invece obietta che così si limita la libertà di espressione?

Che la libertà di espressione e la libertà di insulto non hanno niente a che spartire. Se per strada vede un uomo che esorta a stuprare una passante lei che fa: pensa che quel tizio stia esercitando il suo diritto di parola o invece chiama un agente di polizia per denunciarlo?

Quale messaggio manda agli avvocati e alle avvocate riunite a Roma per il loro G7?

Avanti così. Sappiate che nelle istituzioni troverete orecchie sempre più attente. E che tanti cittadini apprezzano il vostro impegno professionale e civile sul tema, anche se la loro voce sembra più flebile di quella dei violenti.