Il “sultano” che per indole ama battersi il petto e negare le avversità, stavolta ha fatto atto di contrizione, ammettendo con toni dimessi la clamorosa sconfitta alle elezioni amministrative di domenica: «Le cose non sono andate come speravamo».

Un’ondata laica ha infatti spezzato, dopo tanti anni, l’egemonia del suo Akp e lo ha fatto in proporzioni che hanno sorpreso un po’ tutti gli osservatori e gli stessi protagonisti. Quasi una “crisi di rigetto” della società e del Paese nei confronti del suo leader Recep Tayyip Erdogan, al potere da oltre un ventennio, inizialmente come primo ministro, poi come presidente.

Dalle urne viene fuori la palese sconfessione del sistema di potere che, mattone su mattone, ha trasformato la Turchia da Stato di diritto a regime semi-autoritario, un passaggio che diventa drammatico dopo il presunto fallito golpe del luglio 2016 a cui è seguita una repressione feroce e senza precedenti: decine di migliaia di oppositori, di giornalisti, di avvocati di professori universitari sono in questi anni passati per la macchina infernale della giustizia e del sistema carcerario turco, chiamati in causa da accuse strumentali e condannati in seguito a processi farsa privati di ogni diritto alla propria difesa legale.

E non a caso l’aggressione sistematica ai diritti individuali, collettivi e politici è stata al centro della fortunata campagna dell’opposizione che ha denunciato lo Stato di polizia instaurato da Erdogan. La risposta degli elettori ha dimostrato che la democrazia turca è ancora viva e vegeta, capace di reagire, organizzarsi e da ieri anche di darsi una rappresentanza.

Decine di città hanno cambiato colore politico oltre ogni attesa, passando ai laici del Partito repubblicano del popolo (Chp), autentico mattatore del voto e oggi prima formazione politica del Paese con un complessivo 37,5%. Il partito fondato oltre un secolo fa dal padre della Turchia moderna, Mustafà Kemal Ataturk, ha così trionfato nei cinque principali agglomerati urbani: Istanbul, Ankara, Izmir, Bursa e Antalya, aumentando le sue percentuali anche di oltre dodici punti (dal 2003 non aveva mai ottenuto più del 25%).

A Istanbul, il sindaco uscente Ekrem Imamoglu si è preso il 51% dei consensi, undici punti percentuale e un milione di voti in più rispetto a Murat Kurum, il grigio tecnocrate candidato governativo, guadagnando ben 19 circoscrizioni rispetto alla tornata di quattro anni fa che scacciò dal municipio il Akp dopo un quarto di secolo. Nonostante la pesante campagna di diffamazione da parte degli organi di informazione governativi e l’accanimento della magistratura (nel 2019 fu condannato a due anni e mezzo per aver insultato alcuni funzionari), in questi anni la sua popolarità è cresciuta senza soluzione di continuità.

Oggi tutti gli analisti indicano il carismatico Imamoglu, 53 anni, come il principale sfidante del sultano alle prossime elezioni presidenziali, che però si terranno nel lontano 2028, un’era geologica per i tempi della politica.

E dire che la riconquista della metropoli sul Bosforo, che da sola raccoglie la metà del gettito fiscale nazionale, era uno degli obiettivi conclamati della campagna elettorale di Erdogan, il quale si è speso anima e corpo in comizi e pubblici incontri (cinque negli ultimi tre giorni) per centrare l’obiettivo: «Questa è la città in cui sono nato a cui ho consacrato la mia vita e alla quale darò il mio ultimo respiro, vedrete che tornerà al suo legittimo proprietario», aveva sentenziato lo scorso 24 marzo.

Ad Ankara la sconfitta del governo è stata un vero e proprio rovescio: il sindaco Mansur Yavas ha infatti umiliato il candidato di Erdogan, distanziandolo di trenta punti. Lo tsunami “kamalista” non si è limitato alle città storicamente più laiche e alle regioni più “europee”, ma ha travolto anche le storiche roccaforti del Akp, dall’Anatolia centrale al Mar nero dove parte dell’elettorato tradizionalista ha voltato le spalle al presidente. Di rilievo la larghissima vittoria del Chp ad Adiyaman, città di circa 200mila abitanti duramente colpita dal terremoto del febbraio 2023 e da sempre un bastione del voto conservatore.

La pessima gestione del dopo-sisma da parte del governo centrale con le ricostruzioni al palo e decine di migliaia di famiglie ancora sfollate è stato uno degli elementi che hanno più contribuito al rovescio elettorale di domenica.

Al di là dei meriti dell’opposizione e del buon lavoro svolto nei municipi la disaffezione dell’elettorato verso il Akp è un dato che non si discute: negli ultimi dodici mesi oltre 200mila iscritti al partito non hanno infatti più rinnovato la tessera, un’emorragia che pare inarrestabile.

Molti vecchi militanti repubblicani amanti di corsi e ricorsi storici hanno paragonato le vittoriose amministrative di domenica a quelle del 1989 che causarono la caduta dell’allora primo ministro Torgut Ozal. Per il presidente del Chp Ozgur Ozel, altro grande artefice della vittoria, la società turca ha voluto riappropriarsi dei principi della democrazia e dello Stato di diritto calpestati in questi anni dal regime: «Abbiamo vinto nonostante non ci sia stato un patto di alleanza con le altre opposizioni, ma si tratta solo di un primo passo per un successo che sarà più importante. Questo voto rappresenta un punto di svolta per noi, oggi sappiamo che la Turchia non accetterà più di essere uno Stato privato di diritti democratici». Ora il sultano e il suo regime fanno molta meno paura.