Anche in politica, «la natura delle cose sta nel loro cominciamento», come diceva Giovanbattista Vico. Come è partita la traiettoria alla fine della quale Pedro Sanchez ha vinto le elezioni?

Il suo governo era inciampato sulla bocciatura della legge Finanziaria «più sociale di tutta do l’aumento di pensioni e spesa sociale, salario minimo a 900 euro, un piano per i giovani da 3 miliardi, e altri 2 da spendere in Catalogna cercando, senza successo, di ammorbidire gli indipendentisti. Bocciato dal grosso del Partito Popolare, dai finti tecnocrati di Rivera - quella Ciudadanos che ha in realtà l’ex premier Aznar come gran suggeritore- e dagli autonomisti di Barcellona, Pedro Sanchez decise di fare quel che tutti, ma proprio tutti gli sconsigliavano: andare a elezioni anticipate, le terze nel giro di quattro anni.

È finita, come è noto, che da leader del PSOE, Partito Socialista Operaio Spagnolo, nel voto di domenica scorsa ha quasi raddoppiato i seggi: da 84 a 126, sul totale di 350, primo partito con quasi il 30 per cento dei voti.

Data anche l’altissima affluenza, che non solo in Spagna in genere premia la sinistra, ciò che se ne deduce è che una parte consistente dell’elettorato spagnolo vorrebbe veder realizzate quelle politiche sociali proposte dal quarantasettenne economista, riformista ed europeista, che, nonostante ne sia parte dal 1993, dei socialisti spagnoli è ancora un volto nuovo, un outsider rispetto all’establishment di un partito che, da Felipe Gonzales sino ad Alfredo Perez Rubacalba e a Susana Diaz, lo ha sempre osteggiato.

Un elettorato che ha premiato un profilo chiaro, e chiaramente di sinistra, e un leader determinato. Specie se si considera la spettacolare débâcle del Partito Popolare, con personale sconfitta dell’ex premier Aznar che ne era stato il regista dopo la caduta di Rajoy e durante tutta la campagna elettorale, passato da 137 a 66 seggi. Nonostante la crescita di Ciudadanos e di Vox, considerabili entrambi alla stregua di spin- off della disastrata casa madre, l’uno in direzione centrista con 57 seggi, l’altro decisamente alla destra più estrema che si possa immaginare, quella dei nostalgici di Francisco Franco, con soli 24.

E anche se è sempre spericolato, e soprattutto mai realistico, comparare i risultati elettorali di Paesi con sistemi diversi, le elezioni spagnole offrono qualche lezione. La prima è che vince un profilo politico è un programma nitido, in questo caso di sinistra. La seconda è che i governi di minoranza sono possibili.

Le diseguaglianze sociali e la rottura della soglia di benessere portata dalla più grave crisi economica dalla Grande Depressione che seguì il ‘ 29 portano in primo piano la necessità di politiche sociali, che pongano al centro il lavoro, i giovani, il Welfare: in piena Madrid, negli anni della crisi, intere piazze erano invase da cittadini precipitati sulla soglia della povertà, nella perfetta indifferenza del governo del Partito Popolare ( ed è così che nacque Podemos). E non appena si è affacciato nel PSOE, con le primarie, un leader relativamente nuovo, europeista, di sinistra e con le idee chiare, è stato premiato.

Quanto al governo di minoranza, non solo era tale il precedente, quando Sanchez rifiutò decisamente di sostenere Rajoy in un governo di solidarietà nazionale, ma lo sarà anche il prossimo. L’ipotesi accreditata dalle parole dette a caldo dalla vice di Sanchez è infatti “governeremo da soli”. Provare a fare a meno anche dei 42 seggi di Podemos è infatti possibile perché, nonostante la maggioranza sia a 176 seggi, essa è necessaria solo nella prima votazione: dopo, durante la vita del governo, nel sistema spagnolo non serve la maggioranza assoluta ma solo quella relativa dei voti. Che può essere trovata in Parlamento, di volta in volta, in base al provvedimento che è in esame.

Strada ardua, certo. Specie considerando i pessimi rapporti con Ciudadanos, che in Andalusia sta in coalizione con la destra estrema di Vox ( e coi quali Sanchez non ha alcuna intenzione di allearsi: lo facesse, avrebbe una maggioranza stabile di 180 parlamentari). E le altrettanto conflittuali relazioni politiche con gli indipendentisti catalani, che tolsero il supporto al suo primo governo per il rifiuto a permettere un nuovo referendum sull’autonomia di Barcellona.

Ma è in realtà proprio su questo punto che si gioca il futuro di Sanchez. Essendo impossibile, nel rapporto tra Madrid e Barcellona, riportare le lancette della Storia a prima che Rajoy disdettasse, con intervento della Corte costituzionale, la maggiore autonomia che Zapatero aveva trattato con i catalani, si tratta di riuscire a riaprire un vero dialogo con la Catalogna.

Provare a isolare e ridimensionare le pulsioni indipendentiste, magari in una nuova cornice costituzionale. Un sentiero ancora più arduo che tenere in vita un governo di minoranza, ma in cui un governo di minoranza può trovare la propria forza.

E dal quale Sanchez potrebbe uscirne, se riuscisse, come uno statista.