Ebru Timtik è morta ieri dopo 238 giorni di sciopero della fame, e fin dall’inizio dell’aprile scorso senza assumere neppure gli integratori alimentari: uno sciopero della fame che andava dritto verso la morte. Sta condividendo con lei questo drammatico percorso il collega Aytac Unsal, con soli 30 giorni di meno di sciopero sulle spalle. Ebru pesava ormai 33 kili e aveva perso ben più di quel 25% del peso iniziale che da tutti è considerato un punto di non ritorno. Non si reggeva più in piedi e la sua bocca era piagata al punto che anche ingerire acqua le era diventato quasi impossibile; l’acqua la assumeva ormai solo da una siringa. Una morte annunciata, verrebbe da dire. Ma sarebbe troppo sbrigativo.Dal primo di agosto sia lei che Aytac erano stati trasferiti dalla cella in carcere ad una cella in un centro clinico detentivo, rifiutando loro la rimessione in libertà, nonostante che una perizia dell’Istituto Medico Legale avesse dichiarato la loro incompatibilità col regime carcerario. Ed in questa nuova situazione le condizioni di Ebru erano addirittura peggiorate: luce accesa giorno e notte, nessuna finestra e altre torture analoghe.La collega era stata condannata a più di 13 anni di carcere assieme ad altri 15 colleghi della sua stessa associazione, la CHD, che avevano il solo torto di difendere, e bene, i lavoratori, le donne, gli oppositori del regime, e perciò erano stati denunciati e imprigionati e condannati per terrorismo, per un totale di 159 anni. Per la verità nel novembre 2018 erano stati anche rimessi in libertà, ma poche ore dopo di nuovo catturati. Il processo di primo grado si era caratterizzato per macroscopiche violazioni del diritto di difesa, ampiamente denunciate da molti Osservatori Internazionali. La Corte Regionale d’Appello aveva confermato la sentenza con poche righe che denunciavano come non avesse preso nemmeno in considerazione i motivi dell’impugnazione. Ricorso in Cassazione: questa da più di un anno non decide ed è andata in vacanza il 20 luglio (fino al 10 settembre) lasciando in sospeso la questione, quasi ad aspettare che i due colleghi in sciopero della fame nel frattempo morissero. Ed Ebru, purtroppo, è morta, senza avere non dicasi giustizia, ma nemmeno una decisione, favorevole o meno che fosse.Più volte è stato fatto ricorso in queste settimane sia alla Cassazione che al giudice locale affinché fosse rimessa in libertà a causa delle condizioni di salute, ottenendo sempre decisioni negative. Molti si sono mobilitati, anche a livello internazionale, compreso il CNF e la nostra UCPI, con lettere e appelli indirizzati a tutti i giudici possibili e a tutte le autorità competenti, perché questo scempio non si compisse. Ed invece si è compiuto. Aggiungiamo -  perché occorre farlo, anche se non si dovrebbe – che era stato presentato anche un ricorso urgente alla CEDU, la quale aveva dato tre giorni di tempo al governo turco per presentare le sue difese, fino al 27 agosto. Questo aveva chiesto una proroga e gli era stato concesso fino alle 8 di sera del 27. Proprio l’ora in cui Ebru è morta. Ma almeno la CEDU ha capito l’urgenza della questione.La morte di Ebru è stata dunque una morte voluta. Voluta da Erdogan e dal suo governo secondo una linea autoritaria che non esita a mostrare i muscoli nemmeno di fronte alla morte di cittadini inermi. Voluta da una magistratura ormai asservita quasi totalmente (solo la Corte Costituzionale mostra ancora di tanto in tanto qualche barlume di equità). Voluta anche da chi non ha ascoltato gli appelli per la liberazione di Ebru e Aitac e non ha inteso intervenire: la Farnesina e l’ambasciata italiana ad Ankara, per esempio. Non parliamo della stampa e dell’informazione che, chiusura dopo chiusura imposta dal governo turco, giornalista dopo giornalista arrestato e incriminato, è ormai ridotta quasi solo ad una schiera di servi che chinano il capo.Rimane da salvare il collega Aytac Unsal, ma ci sono rimasti pochi giorni.Vogliamo qui, in chiusura, ricordare Ebru Timtik come l’abbiamo conosciuta incontrandola in carcere il Natale scorso: bella, sorridente, con due occhi che parevano due stelle, vivace nonostante gli anni di detenzione già sofferti, chiusa nel supercarcere di Silivri, ma perfettamente informata di ogni avvenimento, di ogni cambiamento politico e sociale. Fiduciosa, ancora e nonostante tutto, che la lotta sua e degli altri colleghi potesse contribuire a ripristinare un minimo di legalità nel paese e nelle aule di tribunale. Il nome di Ebru Timtik rimarrà per sempre legato a questa speranza di un futuro di legalità. Oggi la piangiamo, ma ancor più la rimpiangeremo quando, in un domani non troppo lontano, verrà ripristinata in Turchia la democrazia ed il suo contributo avrebbe potuto essere enorme. *Osservatore Internazionale per l’UCPI