Il 24 gennaio del 1878 la rivoluzionaria russa Vera Zasulic sparò al governatore di Pietroburgo, il generale Trepov, che aveva fatto frustare quasi a morte un detenuto reo di non essersi tolto il cappello al suo passaggio. Con una sentenza a sorpresa l'attentatrice fu assolta e fece in tempo a fuggire prima che il governo impugnasse la scandalosa sentenza. Da quel momento gli attentati in Russia si moltiplicarono e il 13 marzo 1881 uccisero con una bomba l'obiettivo più elevato possibile, lo zar Alessandro II. Vera Zasulic faceva parte del gruppo Zemlja i Volja, Terra e libertà. A eliminare Alessandro II fu l'organizzazione che ne discendeva, Narodnaja Volja, Volontà del popolo. Erano entrambe braccia operative del populismo russo, benedette dal suo profeta in esilio Aleksandr Herzen. Non si limitavano a combattere l'autocrazia in nome del popolo, ritenevano che nel mondo contadino russo esistesse uno spirito comunitario intrinsecamente positivo che avrebbe permesso di evitare la fase della rivoluzione borghese. Sul versante non violento, posizioni simili erano espresse da Tolstoj col quale Lenin polemizzò, prendendolo però sul serio come meritava, in alcuni articoli molto serrati. Da allora, il termine "populismo" non è mai stato adoperato tanto spesso come negli ultimi anni. E' improbabile però che si riferiscano a quel populismo i dottori che ogni giorno, dalle colonne di tutti i giornali e dagli studi di tutte le tv, lo citano come il nuovo spettro che si aggira non solo per l'Europa. Se così fosse non si spiegherebbe la piega sdegnosa della bocca, l'espressione a metà tra lo schifato e la sufficienza di chi si sente immensamente superiore. Al populismo di Herzen e Tolstoj nessuno negherebbe uno spessore che mal si concilia con gli sbrigativi anatemi a cui si abbandonano i dotti in ogni circostanza: Brexit, Marine Le Pen, Orban, M5S, Tsipras, Podemos, Hofen... Tutte varianti del medesimo demonio, stupido ma non per questo meno pericoloso: "Il populismo". Il riferimento sarà forse al People's Party, formazione indipendente americana che ebbe il suo momento di gloria tra il 1891 e il 1896, raggiungendo l'8% alle elezioni presidenziali del 1892? Qualche punto di contatto in effetti ci sarebbe. Il programma del partito era ferocemente ostile alle grandi banche, proponeva la nazionalizzazione delle ferrovie e del telegrafo, puntava sulla tassazione progressiva. Ma quella era un'organizzazione di estrema sinistra, poi confluita come ala radicale nel Partito democratico. Se sul banco degli accusati del XXI secolo ci fossero solo Tsipras e Iglesias ancora ancora si potrebbe attribuire al populismo contemporaneo quella improbabile discendenza genealogica, ma come metterla con quella componente dei reprobi che solo a sentir parlare di sinistra mette mano alla pistola? La definizione ossessivamente ripetuta è in realtà tanto vaga e approssimativa da potersi adattare a quasi tutto. Se per populismo s'intende il rapporto diretto e fortemente emozionale del leader carismatico con le masse, sarebbero certamente da considerarsi movimenti populisti il fascismo e il nazismo. I quali tuttavia non presentano punti di contatto con l'originario movimento russo e sono antitetici rispetto alla visione etica che del populismo offriva nel 1969 il suo massimo profeta recente, il sociologo americano Christopher Lasch: «Il populismo è la voce autentica della democrazia. Si basa sul principio che gli individui hanno diritto al rispetto finché non si dimostrano indegni di averne, ma esige che tutti si assumano le loro responsabilità». Nei regimi totalitari, inoltre, il nesso diretto ed emotivo tra il capo e le masse era solo una componente, fondamentale ma non tale da caratterizzarli in maniera eminente. Probabilmente il modello di governo che più merita l'incresciosa nomea è quello di Juan Domingo Peròn, presidente dell'Argentina dal 1946 al 1955, con la sua continua chiamata alla mobilitazione plebiscitaria del popolo che tuttavia non degenerò in dittatura o regime. Quando l'etichetta viene applicata a leader Berlusconi in Italia è proprio al modello peronista che ci si riferisce. Solo che nessuna di queste esperienze storiche, e neppure quella italiana del partito dell'Uomo qualunque, citata dal sociologo di destra Marco Tarchi come apogeo del populismo de noantri, spiega l'inflazione corrente del termine e la sua trasformazione in parolaccia. Il populismo, per come viene inteso e debitamente demonizzato oggi, è qualcosa di simile a quelle esperienze ma con al suo interno slittamenti profondi. È un messaggio di rivolta contro le élites indirizzato al popolo, demagogico e pericoloso ma non perché infondato. Al contrario, le stesse firme che nei giorni pari suonano l'allarme rosso per la minaccia populista, in quelli dispari dissertano sulle medesime nefandezze delle élites che il "populismo" denuncia. L'elemento demagogico sta nell'illudere il popolo che quei limiti possano essere superati contrapponendosi alle élites invece che affidandosi alla loro capacità di autoriformarsi. Non è che le élites in sé siano buone. È che sono comunque meglio della massa vociante, della plebe ignorante. Sbaglieranno pure, ma almeno sanno quello che fanno. Dunque solo loro possono invertire la marcia senza provocare quei disastri che sarebbero invece garantiti affidando la guida al popolino. Perché classi dirigenti che nel giro di pochi anni hanno inanellato i disastrosi interventi in Iraq e Libia, la legge sull'accorpamento delle banche d'affari e degli istituti di risparmio, la crisi del 2008, la politica del rigore in Europa, il salvataggio delle banche a spese di tutti dovrebbero «sapere quello che fanno» resta oscuro. Cosa permetta di sperare in una loro capacità di cambiare rotta lo è ancora di più. A differenza degli anatemi del passato, come «anarchici» o «fascisti», l'accusa generalizzata di «populismo» maschera una visione del mondo fondata sul censo e una diffidenza radicata e montante nei confronti della democrazia. L'uso smodato del termine «populisti» declinato come sprezzante accusa dice pochissimo sugli oggetti dell'accusa. Però dice tutto su chi sono e cosa realmente pensano quelli che la muovono.