È la goccia di petrolio che ha fatto trabboccare il vaso della rabbia, un sentimento che covava lungo la linea di frattura che separa la Francia delle élites , istruita, ricca, globalizzata, in altri termini “macroniana”, e la Francia del “basso”, periferica, rurale, impoverita, disperatamente aggrappata all’automobile, unico strumento e simbolo di mobilità nei territori abbandonati dallo Stato. Là dove i trasporti pubblici sono una chimera e quando provi a digitare il nome del paesino sperduto che vuoi raggiungere in treno, l’applicazione della Sncf ti risponde beffarda: «Spiacenti, nessun itinerario corrisponde alla sua ricerca».

Tra le due nessun corpo intermedio, in perfetta linea con lo spirito dei tempi : partiti, sindacati, associazioni, nulla di nulla, soltanto «uno spazio immenso e vuoto tra il potere e gli individui», come scriveva Toqueville a proposito dell’assolutismo.

Ovviamente la Francia di Macron non è quella di Luigi XVI e la Quinta Repubblica non è l’Ancient Régime, ma la distanza tra l’Eliseo e le sue province non poteva essere più profonda.

E quando il governo, in nome della “transizione ecologica” ha deciso di aumentare le tasse sul carburante, in particolare sui diesel ( il gasolio ha raggiunto il prezzo della verde), la rabbia ha deflagrato in quello che sembra un piccolo scontro di civiltà: ambientalismo contro sopravvivenza.

Oltre agli idrocarburi sono aumentate le imposte sulle mutue sanitarie ( Csg), sulle sigarette, sulle bevande gassate, mentre le bollette del gas e dell’energia elettrica continuano a schizzare verso l’alto. L’unica tassa che ha subito una sfrondatura significativa è la Isf, ovvero la patrimoniale. In sostanza a beneficiare delle politiche dell’ex banchiere Macron fin qui è stato l’ 1% più ricco della popolazione. E poco importa che presidenti come Sarkozy e Hollande avevano colpito ancora più duramente i diritti sociali con licenziamenti ed esuberi di massa tra i funzionari pubblici: per milioni di francesi oggi il capo dello Stato è una specie di Maria Antonietta post- moderna dispensatrice di briosches, uno in grado di spendere 500mila euro per sostituire le porcellane dell’Eliseo o di dilapidarne 300mila per i suoi trucchi personali. Un presidente che, quando il mese scorso fu aggredito verbalmente da un disoccupato per la strada è stato capace di replicargli a muso duro «Cosa vuoi da me? Cammina e trovati un lavoro».

Una storia di “percezione” pontifcano i politologi, il che è in parte vero, ma con i suoi comportamenti da sovrano capriccioso e lontano dal popolo, con la sua determinazione a non ascoltare nessuna voce di protesta che viene dalla pancia del Paese, il giovane Macron ce la sta davvero mettendo tutta per confermare la percezione che molti, troppi francesi hanno di lui.

Come molti movimenti contemporanei anche questi “gillet gialli” che da giorni bloccano il Paese sono nati sul web, un’incubatrice del meglio e del peggio che ribolle nelle nostre società; una pagina facebook che diventa virale in poche settimane e un messaggio tagliato con l’accetta ma di estrema chiarezza: il nostro potere d’acquisto precipita, non riusciamo più ad arrivare a fine mese, il governo ci tartassa, siamo stufi e siamo pronti a rivoltarci.

Non lottano per un mondo migliore, non si battono per il sol dell’avvenire o per i diritti di tutti ma non sono neanche dei truculenti “fascisti” ostili agli immigrati o dei difensori della razza bianca come spesso insinuano i grandi media: in questo sono squisitamente apolitici.

Il loro bersaglio preferito, come è stato per i Cinque stelle in Itala, è la “casta” dei politici. Tra le poche rivendicazioni generali che hanno avanzato oltre all’aumento dei salari e alla diminuzione delle tasse c’è infatti il taglio drastico degli stipendi dei parlamentari e quello dei vitalizi: «Questo vale per tutti i partiti, nessuno escluso» tuonano rivendicando equidistanza e uguale biasimo nei confronti della classe politica. La maggior parte di loro è infatti composta da astensionisti cronici, elettori che non vanno alle urne da anni e quindi rappresentano una scheggia impazzita e indecifrabile per tutti i sondagisti che ora si chiedono cosa mai voteranno i gilet gialli alle prossime elezioni europee.

Di sicuro non per la République en marche di Macron, ma neanche per i gollisti, due partiti troppo “borghesi” e parigini.

Nella narrazione mainstream vengono paragonati ai poujadisti degli anni 50 con i quali condividono molti tratti su tutti il qualunquismo di base, altri ancora evocano, con poco senso del ridicolo e sfruttando la suggestione “campagne contro città”, i controrivoluzionari della Vandea, svelando così la variabile più pericolosa, più sgradevole, più “di classe” della frattura tra le due France: il disprezzo antropologico.

Il disprezzo di chi annusa schifato “l’odore della povertà” e, come un fascio di raggi x, squadra dalla testa ai piedi questi umani di serie B, cittadini con un basso livello di istruzione che parlano un francese basico e involuto, indossano vestiti di scarsa qualità e si nutrono di cibo spazzatura e bibite gassate. Gente poco fashion, poco cool, che non mette mai piede in un cinema, in un teatro, in una libreria, in un museo, più “gallici” che francesi, in una dinamica di esclusione sociale e di coagulazione del rancore che ricorda molto più l’America di Trump e la sua rust belt che qualsiasi altro paese europeo.

Sono gli abitanti della Francia périhurbaine come viene definita dottamente dai sociologi, classi medie impoverite e spinte ai margini delle me- tropoli, abitanti di non- luoghi, agglomerati residenziali che spuntano ovunque dagli snodi autostradali, lungo i terrapieni dei dipartimenti agricoli; tutto un Paese fatto di lingue di asfalto che si perdono nel nulla, distributori di benzina, autorimesse, raffinerie, depositi di copertoni appoggiati sulle tangenziali, centri commerciali che, come cattedrali nel deserto, svettano a decine di chilometri di distanza dai primi centri abitati, località dai nomi intricati e dalle sonorità rustiche che fanno pensare ai baffuti galli di Asterix: Montigny- le- Guesdier, Lann- Sevelin, Tilloy- les- Mofflaines.

«Nel mio villaggio non c’è nulla, giusto il municipio che rimane aperto per qualche ora alla settimana, nessun bar, nessun tabaccaio, nessuno spaccio alimentare il primo fornaio è a cinque chilometri. Se mi dimentico di comprare il pane e devo ritornare indietro, cara mi costa la baguette!», racconta a Le Monde la 35enne Marion Pruvost che vive a Montereau- Fault- Yonne ( al confine tra Ile de France e Borgogna) ma gestisce un garage con il marito a 5 uscite di autostrada, ovvero 70 chilometri ogni giorno per andare e tornare dal lavoro. A fine mese il rosso sul contocorrente è garantito.

Fino a qualche anno fa viveva nella banlieue di Parigi, in una zona ben servita dal circuito dei treni regionali. Ma poi i prezzi sono saliti vertiginosamente ( gli affitti nella regione parigina hanno subito un incremento del 300% in dieci anni) e come migliaia e migliaia di famiglie anche quella di Marion è stata costretta a spostarsi verso le zone periferiche della Francia dimenticata, quelle dei gilet gialli per capirci.

«Per Macron non esistiamo, siamo degli invisibili, ci sono persone che campano con sei euro di pensione alla settimana, è uno schifo, ma lui è un amico dei ricchi, io non ho più vent’anni e ho visto tutti i presidenti della Quinta Repubblica, vi dico che Macron è senz’altro il peggiore di tutti», racconta al Dubbio Nadine, pensionata di 68 anni di Savigny- le- Temple, una cittadina a 65 chilometri a sud della capitale alle porte dell’autostrada A5. Un altro non- luogo, e nemmeno tra i peggiori.

«Questa non è né campagna né città, questa è una merda», diceva alcuni anni fa l’attore Vincent Lindon in Fred, piccolo capolavoro neorealista che anticipò quella spaccatura oggi sotto gli occhi di tutti.

Lavoratori pubblici di basso livello, piccoli commercianti in sofferenza, agricoltori, precari, disoccupati di lunga durata, giovani senza prospettive, gli abitanti della Francia periurbana non fanno parte dell’aristocrazia operaia di tradizione socialista e comunista e nemmeno delle classiche corporazioni di mestieri che, di tanto in tanto, fanno sentire la propria voce per ottenere una concessione dai poteri pubblici.

Se il gilet giallo in dotazione obbligatoria dal ministero dei trasporti è il simbolo di ogni automobilista, il loro movimento è invece un oggetto sociale non identificato, privo di leader conclamati, privo di organizzazione, privo di agenda, un flusso orizzontale, proteiforme, refrattario a qualsiasi forma di inquadramento politico e sindacale.

Le storiche confederazioni dei lavoratori come la Cgt e la Cftd ( che ormai rappresentano appena il 6% della forza lavoro nazionale) sono state allegramente bypassate dalle loro iniziative, mentre gli avversari politici di Macron, come piccoli avvoltoi, tentano di appropriarsi del movimento, di metterci sopra un cappello, di sfruttare l’onda del malcontento.

Su tutti spicca il Ressemblement National ( ex Fn) di Marine Le Pen che da giorni si prodiga in dichiarazioni di solidarietà e appassionata vicinanza con il popolo dei giubbetti gialli senza peraltro ottenere un granché in contropartita.

Tra i non astensionisti dei gilet gialli alcuni avranno anche votato Front National, ma senza identitarismo o senso di appartenenza, sicuramente il razzismo, la xenofobia, come il sovranismo, il populismo non sono categorie in misura di dire alcunché su questa insorgenza. La sensazione è che se nei prossimi tempi emergesse una forza politica capace di entrare in sintonia reale con il movimento tutte le famiglie politiche d’oltralpe ne pagherebbero le conseguenze.

Anche la sinistra radicale della France Insoumise ha chiamato i suoi militanti a scendere in piazza, a discutere con i dimostranti per comprendere meglio un fenomeno che neanche loro avevano visto arrivare e che nessuno ha ancora capito fino in fondo.

I blocchi stradali dell’ultimo fine settimana dal punto di vista organizzativo sono stati un disastro: un morto e oltre 500 feriti, quasi tutti in schermaglie tra automobilisti e manifestanti che impedivano gli accessi ai grandi snodi stradali con le forze dell’ordine a fare quasi da spettatori passivi se non inermi.

Episodi di violenza documentati da centinaia di video che mostrano una situazione di pura anarchia ai quattro angoli del paese e che solo il buon senso individuale non ha fatto degenerare in tragedia.

Popolo contro popolo, un cortocircuito che esprime tutte le contraddizioni e le debolezze di un movimento portatore di una collera viva ma privo di qualsiasi strategia e orizzonte. «Siamo pronti ad andare avanti, non ci fermeremo finché il governo non avrà fatto marcia indietro», promette Priscilla Ludoswy una dei pochi portavoce de gilet.

E’ su queste debolezze che speculano Macron e i suoi alleati, convinti che prima o poi i contestatori si stancheranno, verranno fiaccati dal tempo, si divideranno e torneranno buoni buoni nei loro dormitoi della France d’en bas da anonimi e docili cittadini.

Un calcolo cinico, ma soprattutto poco lungimirante perché quegli sgraziati gilet gialli potrebbero essere la prima pinna dello squalo che affiora dall’acqua, la prima vertebra dell’antipolitica che ormai sembra giunta anche alle porte di Parigi. E, come insegna la Storia, chi si prende la Francia poi di solito si prende tutta l’Europa.