Una «persecuzione sistematica delle donne». La Corte penale internazionale ( CPI) ha spiccato per la prima volta due mandati di arresto contro due alti papaveri del regime dei talebani in Afghanistan, il leader politico del movimento Hibatullah Akhundzada e il presidente della Corte suprema Abdul Hakim Haqqani accusati di crimini contro l’umanità. I giudici dell’Aja ritengono che entrambi abbiano promosso, ordinato o incoraggiato atti di repressione contro le donne e le ragazze afghane.

Oggi a Kabul le donne non possono frequentare la scuola secondaria, accedere all’università, esercitare un’attività professionale, passeggiare in un parco, andare in una palestra, in un bagno pubblico, in una salone di bellezza, recitare, cantare e persino recitare il Corano ad alta voce. Un dispositivo di segregazione totale e un «apartheid di genere» per impiegare le parole dell’Onu. Dal loro ritorno al potere nell’agosto 2021, i talebani hanno costruito un regime fondato su un’interpretazione inflessibile quanto artificiosa della legge islamica, imponendo divieti sempre più severi e punizioni feroci per chi trasgredisce, come la lapidazione nei casi di adulterio. le parole delle Nazioni Unite. La Cpi documenta migliaia di episodi di privazione del diritto all’istruzione, di attentato alla privacy, alla libertà di movimento, di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione, avvenuti tra il 2021 e il 2024.

Le reazioni del regime islamico non si sono fatte attendere. Un portavoce del governo talebano ha definito «assurde» le accuse, ribadendo che l’Afghanistan non riconosce la legittimità della Corte internazionale e che le sue decisioni non influiranno sull’ «impegno incrollabile» per l’applicazione della sharia: «Ancora una volta, questo cosiddetto tribunale ha chiesto l’arresto di alcuni leader dell’Emirato islamico. Non abbiamo bisogno di questa corte e non la riconosciamo».

Al centro dell’indagine, Akhundzada rappresenta una figura tanto enigmatica quanto influente. Salito alla guida dei talebani nel 2016, dopo la morte del mullah Mansour in un attacco di droni statunitensi in Pakistan, ha esercitato il potere in modo schivo ma assoluto. Dalla sua abitazione di Kandahar, nel sud del Paese, pubblica proclami religiosi in occasione delle principali festività islamiche e governa attraverso decreti, evitando apparizioni pubbliche e mantenendo una rigida distanza dal mondo esterno. «Applicare la sharia è la nostra responsabilità fino alla morte», dichiarava nell’agosto 2024, celebrando il terzo anniversario della presa di Kabul.

Il suo braccio giuridico, Abdul Hakim Haqqani, condivide la responsabilità di avere istituzionalizzato e dato base legale un sistema di segregazione e repressione su base di genere, facendo dei tribunali lo strumento principe della persecuzione.

Già lo scorso gennaio, il procuratore della Cpi Karim Khan aveva preannunciato la richiesta di mandati d’arresto, denunciando la «persecuzione senza precedenti, inammissibile e permanente» nei confronti delle donne, delle ragazze e della comunità LGBTQ+ in Afghanistan. Oltre guerra di genere, Khan ha ricordato che il regime talebano ha brutalmente silenziato ogni forma di opposizione politica, reale o presunta, con omicidi, torture, sparizioni forzate, stupri e altre violenze.

Lunedì 7 luglio, anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che condanna il «sistema istituzionalizzato di segregazione» imposto ai danni delle donne afghane, segnalando un allineamento crescente della comunità internazionale nel rifiuto del regime misogino imposto dai talebani anche da parte di nazioni musulmane.

In teoria, i mandati della Corte penale internazionale obbligano gli Stati membri ad arrestare gli individui incriminati se si trovano nei loro territori. In pratica, l’assenza dell’Afghanistan dall’elenco dei Paesi aderenti limita fortemente le possibilità di esecuzione dei mandati. Ma il segnale politico è forte: la giustizia internazionale ha preso posizione, anche contro chi si illude di poter agire impunemente in nome della religione.