A Napoli non si è nuovi ad assurdità simili. È nel Palazzo di giustizia di quella città che hanno massacrato Enzo Tortora. E in giorni come questi va anche ricordato come l’infame supplizio inflitto a Enzo sulla base di invenzioni dei pentiti sia cominciato con lo show delle manette ai polsi immortalate da paparazzi convocati per l’evento. Quella del poliziotto Armando Riccardo non è una storia di ostensione del mostro ma con il triste precedente partenopeo ha in comune il potere insensato concesso ai collaboratori di giustizia.

Riccardo è stato assolto mercoledì scorso dall’accusa di aver preso tangenti dalla camorra di Secondigliano. Otto anni di procedimento penale, quasi 18 trascorsi dall’epoca dei presunti reati. Più che presunti, inventati di sana pianta dai pentiti. I capi di imputazione, risalenti al 2001, si fondavano tutti sul racconto di malavitosi, secondo i quali l’ex “falco” della Questura di Napoli, oggi 44enne, avrebbe ottenuto cifre fino a 20 milioni di lire per occultare prove dello spaccio e omettere controlli. Risultato: l’agente, all’epoca già insignito da qualcosa come 32 encomi solenni, protagonista di attività investigative importantissime tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, ha visto intanto andare in pezzi vita privata e carriera. Ora è alla Polfer a Roma. Si è separato della moglie, ha fatto i conti con «gravi problemi economici», come ha raccontato al Corriere del Mezzogiorno. Difficile non considerare discutibili le scelte della Procura di Napoli e del gup che nel 2010 lo rinviò a giudizio, nonostante il suo difensore, Paolo Abenante, avesse portato prove granitiche e ridicolizzato le menzogne dei collaboratori di giustizia.

Il virus delle false accuse ad Armando Riccardo si diffonde dopo che nel ’ 99 l’allora “falco” della questura arresta 99 affiliati ai clan di Secondigliano. Una botta memorabile a quella che già all’epoca era la più importante piazza di spaccio del Mediterraneo. Roba da fare carriera. Ancora oggi i suoi capi di allora, tra i quali l’attuale questore di Napoli Antonio De Iesu, lo ricordano come un «poliziotto implacabile». Tra i meriti sul campo c’è anche quello di aver individuato in un giovane camorrista, Rosario Privato, uno dei respondsabili della morte di Silvia Ruotolo, la mamma uccisa da un proiettile vagante, nel ’ 97 al Vomero, in un regolamento di conti fra spacciatori. Il livello e il valore delle azioni paradossalmente incoraggiano i pentiti a sceglierlo come bersaglio. Forse con il concorso dei veleni che arrivano al poliziotto dal suo stesso fronte. Nel 2006 scova in un garage 8 chili di droga: il titolare però è cognato di un altro agente della narcotici. E sarà proprio quest’ultimo a presenziare alle “rivelazioni” di alcuni dei pentiti che infangano Riccardo.

I primi guarda caso vengono dal rione Monterosa, cuore di Scampia. Fantasticano di una tangente da 20mila euro pagata dal potente clan Prestieri, “guardiaspalle” dei Di Lauro, in modo che Riccardo facesse sparire delle foto che provavano i traffici. I pm gli credono e ottengono dal giudice la misura cautelare in carcere. Quindici giorni a Santa Maria Capua Vetere. L’avvocato Abenante, che ancora oggi difende il poliziotto, ottiene subito l’annullamento dal Riesame: gli indizi di colpevolezza non esistono. Ma è un segnale: ci sono giudici che credono a occhi chiusi ai pentiti, anche se altri non ci cascano. Finisce che nel 2010 il gup di Napoli rinvia l’agente a giudizio per “corruzione con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa”. «Eppure», racconta Abenante, «già in quell’udienza preliminare esibiamo prove che smontano tutto. Testimonianze e documenti dimostrano che il giorno della consegna della presunta tangente da 20 milioni Riccardo è altrove, impegnato in altra operazione insieme con un collega diverso da quello ritenuto suo correo nel fantomatico traffico col clan Prestieri. Rispetto ad altre testimonianze di altri collaboratori di giustizia, sempre risalenti ai primi anni Duemila, viene fuori che il tempo in cui i pentiti collocano il pagamento di tangenti a Riccardo da parte dei clan corrisponde a un’epoca in cui il mio assistito non solo non è ancora arruolato in polizia, ma risulta addirittura minorenne».

Menzogne palesi. Eppure il giudice dell’udienza preliminare crede ai pentiti. Il dibattimento inizierà in ritardo. Alla fine trascorrono 8 anni prima di arrivare all’assoluzione di lunedì scorso. Con la formula «perché il fatto non sussiste», fa notare l’avvocato. Come si spiega un così grave errore di Procura e gup? «I collaboratori sono a caccia di menzogne», nota Abenante. «Vengono lautamente stipendiati. E ogni racconto falso prolunga tale condizione. Ma soprattutto», osserva con amarezza il difensore, «si tende a ribaltare il principio, sancito dal codice e dalla Cassazione, per cui andrebbe presunta l’inattendibilità del pentito. Avviene il contrario: è dell’accusato che ormai si dà per acquisita l’inattendibilità, anche quando fornisce prove certe come nel nostro caso».

Chiederà risarcimento per ingiusta detenzione, Armando Riccardo. «Devolverò la somma in beneficenza», dichiara. E chiederà al ministro dell’Interno Salvini di intervenire affinché venga subito archiviato il procedimento disciplinare che gli ha bloccato la carriera. «Rivoglio l’onore», spiega. Che forse è il sistema di gestione dei pentiti a non meritare.