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Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d'America
Se non fosse stato per Joe Biden e la sua dileggiata amministrazione a quest’ora la Striscia di Gaza sarebbe una spianata di macerie, altro che corridoi umanitari, altro che discussioni sul destino dei profughi.
Dopo i pogrom del 7 ottobre il governo Netanyahu aveva in mente una sola strategia: colpire Gaza, a testa bassa, vendicarsi con tutta la potenza di fuoco di cui dispone l’esercito israeliano e tanto peggio per i civili palestinesi. Una furia cieca, direttamente proporzionale alla disastrosa gestione della sicurezza che ha portato alla più sanguinosa strage di ebrei dalla nascita dello Stato di Israele.
Fin dalle prime ore del conflitto gli Stati Uniti hanno ribadito la vicinanza politica e ideale agli israeliani, condannando le atrocità di Hamas e schierandosi dalla loro parte senza esitazioni, promettendo inoltre di combattere materialmente assieme agli storici alleati la piaga del terrorismo islamista.
Fin qui un copione scontato, sulla falsariga di tutti i conflitti che hanno coinvolto Israele in Medio Oriente. Ma entrando con tutte le scarpe in questa nuova crisi, Washington vuole anche dettare i tempi della diplomazia, da una parte per evitare che la guerra si allarghi a macchia d’olio tirando dentro la Repubblica iraniana e le milizie di Hezbollah, dall’altra per scongiurare una catastrofe umanitaria nell’enclave palestinese dove vivono oltre due milioni e mezzo di persone. Nell’ultima settimana i bombardamenti di Tel Aviv sulla Striscia sono stati pesantissimi, migliaia gli obiettivi colpiti e almeno 2300 civili che hanno perso la vita nei raid aerei e sotto le cannonate dell’artiglieria di Tshaal, per non parlare degli ospedali al collasso, delle abitazioni e delle infrastrutture distrutte, della mancanza di energia elettrica, viveri e carburante. Ancora ieri le Nazioni Unite e tutti gli operatori umanitari presenti a Gaza parlavano di «situazione drammatica», con migliaia di persone disperse e sepolte sotto le macerie degli edifici polverizzati.
Ma il bilancio poteva essere molto più cruento se gli Usa non fossero intervenuti per frenare la rabbia incontrollata di Netanyahu e del suo esecutivo. Anche perché i circa 150 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas non sembrano fungere da deterrente per l’offensiva israeliana, e nel paese cresce la sensazione, inconfessabile, che per il governo quei prigionieri siano quasi sacrificabili e che la loro liberazione non sia l’assoluta priorità.
Lo stesso Biden quattro giorni dopo le stragi di Hamas durante un incontro con la comunità ebraica americana ha sottolineato la necessità che lo Stato ebraico agisca con cautela e risponda in modo proporzionato agli attacchi del movimento islamista: «Comprendo perfettamente la rabbia e la frustrazione, Israele ha il dovere di difendersi ma deve farlo rispettando il diritto di guerra». Se oltre seicentomila palestinesi hanno già lasciato Gaza city per dirigersi a sud, al confine con l’Egitto attraverso un corridoio umanitario, è stato grazie all’intervento degli Usa che hanno convinto (o costretto?) Netanyahu e i generali dell’esercito a ritardare le «operazioni militari rafforzate» concedendo più tempo a chi cerca di fuggire dall’inferno.
Il segretario di Stato Usa Antony Blinken, da una settimana nella regione, oltre a sostenere Israele e il suo diritto alla sicurezza, sta cercando una mediazione, più che mai necessaria, con i Paesi arabi; lo spasmodico tour de force che in pochi giorni lo ha portato in Egitto (due volte), Qatar, Emirati uniti, Barhein, Arabia saudita e Giordania (due volte) sta a dimostrare che gli Stati Uniti vogliono essere protagonisti assoluti, da una parte limitando l’azione di Israele, dall’altra assumendo una postura di relativa neutralità che tenga conto anche del diritto dei palestinesi a vivere in pace
È vero che gli scioccanti attentati del 7 ottobre hanno riavvicinato Washington e Tel Aviv, unite nella lotta senza quartiere contro Hamas e i suoi sponsor, ma i rapporti tra i due governi fino a quel tragico giorno erano ai minimi termini, Biden che aveva infatti criticato più volte la colonizzazione della Cisgiordania intensificata da Netanyahu con oltre 13mila nuovi insediamenti illegali.
In un’intervista rilasciata appena lo scorso luglio alla britannica Bbc il presidente Usa ha attaccato senza giri di parole l’esecutivo israeliano, definendo «estremista» la politica di espansione in Cisgiordania, una condotta che per la Casa Bianca «mina la prospettiva dei due Stati per i due popoli e danneggia la fiducia da entrambe le parti». Dichiarazioni che a loro volta avevano irritato Netanyahu, al punto che il ministro israeliano per la sicurezza, l’ultranazionalista Ben Gvir tuonò: «Non siamo la 56esima stella della bandiera americana!». Insomma, amici ma non troppo.