Clint Eastwood voterà Donald Trump, come ha dichiarato lui stesso in un’intervista al magazine Esquire. Notizia rilanciata dalle agenzie e dai siti di tutto il mondo, proprio come se davvero fosse una notizia. Non lo è evidentemente. Perché nessuno che conosca un po’ il vecchio Clint – che ne conosca il discorso, la mentalità, il modo di essere e di agire – ha mai dubitato che prima o poi lo avrebbe di nuovo sferrato il colpo all’establishment, come del resto aveva già fatto durante la campagna elettorale di Obama, simulando un’intervista al presidente con una sedia vuota.L’America di Eastwood - l’America per intendersi di Callaghan e di Kowalski, gli avatar dei suoi film - non è quella delle “fighette” di Boston e di Washington, ma quella ruvida, e spesso brutta, sporca e cattiva delle periferie e dei ranch, delle contraddizioni e delle paure, della violenza sistemica del suo sistema economico. L’America profonda che può non piacere ma che pure esiste ed è grande e terribile come Gramsci diceva del mondo. Clint Eastwood è sempre rimasto quello che è sempre stato: un anarco- conservatore irriducibile alla fiction politicamente corretta, alla narrazione consolatoria dell’America «faro di democrazia e di civiltà». Del resto se anni fa aveva rotto con la macchina mitologica di Hollywood per farsi una casa produttrice tutta sua, la Malpaso Production, un motivo c’è, e il motivo è conservare la libertà di poter dire l’indicibile, di raccontare le verità che fanno male, di essere crudo e duro, sempre: che si tratti di eutanasia o di pedofilia, di violenza o di guerra.Sembrerà un paradosso ma la lancia spezzata da Eastwood per Trump ha prima di tutto a che fare con una questione di stile e di estetica. Trump non è una bella persona – almeno secondo gli standard correnti – ma è «uno tosto» come dice Eastwood, e soprattutto è uno che pronuncia quell’indicibile di fronte a cui gli altri s’arrestano o, peggio, che gli altri nascondono. Hillary sembra uscita da un serial holiwoodiano sulle presidenziali, la messa in piega perfetta, l’eloquio studiato, il gesto calcolato, la stereotipia di un sorriso da Gioconda inquietante quanto le smorfie di Trump. Un ectoplasma senza vita per il vecchio Clint, l’icona del conformismo americano. Una filosofia su cui Eastwood, pagandone il prezzo, spara da quarant’anni. E poi c’è la pussy generation appunto, la “generazione dei fighetta”, come la chiama il vecchio leone, il corpaccione del neoclintonismo per il quale il mondo corrisponde davvero a quella narrazione antitragica progressiva ed edificante, che l’intellighenzia di riferimento dei club democratici racconta da anni come un fuilletton a puntate.La realtà invece è un’altra cosa: è il sangue e la merda che Eastwood ha raccontato in tutti i suoi film – da Million dollar baby a Lettere da Iwo Jima passando per Lo straniero senza nome - azzerando praticamente tutta la retorica americana fatta di happy end e Indovina chi viene a cena. E di questo sangue e di questa merda Clint ha sempre avuto il rispetto che si deve alla vera materia di cui sono impastati gli uomini. Uomini come il suo Bradley Cooper che si arruola volontario in Iraq a fare lo sniper, il cecchino, a sporcarsi le mani per consentire all’America di vivere la sua relativa sicurezza, la sua perdurante egemonia. Senza nascondersi dietro il dito del pacifismo, senza nascondere le bare dentro cui i ragazzi tornano a casa dalle guerre. Trump per Eastwood è uno vero perché non ha paura di sporcarsi le mani, di dare voce alla pancia del Paese, alle nuove paure americane, che sono antiche quanto gli States, ma che ora sono più acute: lo spettro della povertà, l’ossessione per la sicurezza, il timore che la società multirazziale possa trasformarsi in una società multirazzista.E c’è anche un altro aspetto: più politico: Trump è l’America della dottrina Monroe, il rifiuto della missione imperiale, della crociata internazionale per la democrazia: piede in casa e isolazionismo. Una tradizione, questa, tutta repubblicana – rotta dai Bush – ma a cui Eastwood ha sempre aderito. Trump come Nixon - anche lui bruttissimo e universalmente esecrato - le guerre potrebbe chiuderle invece che aprirle, come al contrario aveva fatto il bellissimo e democratico Kennedy attaccando il Vietnam. Dopo di che c’è bisogno di dirlo? Eastwood non crede che Trump sia la via della verità: «Non condivido molte cose di lui» e basta aver guardato anche un solo film di Eastwood per capire che la traduzione politica della sua sofisticatissima visione del mondo non può essere un miliardario istrionico. E tuttavia oggi la bestemmia contro il sistema americano ha il nome di quel personaggio, è lui la bestemmia che Eastwood poteva pronunciare oggi, il pugno nello stomaco che aveva a tiro. Non perché Trump risolva il problema americano ma perché lo tiene aperto e lo rivela al mondo. In fondo è quello che questo anarcofascista ultraottantenne dagli occhi di ghiaccio e dalla faccia di cuoio ha fatto per quarant’anni. Della saga dell’antieroe Trump si potrebbe dire, del resto, quello che Sean Connery un giorno disse all’uscita di una proiezione di un film di Eastwood: «E’ una storia completamente americana, ma sembrerebbe l’abbia girata un europeo».