«Celebrare i 50 anni dallo Statuto dei lavoratori non si traduce affatto in un rimpianto. Posso assicurarlo. Anzi, dico di più: sono felice di aver scelto il diritto del lavoro, come campo della mia attività di giudice. Ho iniziato da pm, ma ora, da presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Genova, posso dire di incidere nella realtà assai più di quanto mi capitasse da magistrato inquirente». Avercene di “toghe” come Marcello Basilico, punto di riferimento non solo nella giurisdizione ma anche sul piano culturale: oltre a ricoprire la ricordata funzione nel capoluogo ligure, Basilico fa parte della giunta centrale dell’Anm, e nel “sindacato” dei giudici è anche presidente della commissione Lavoro. Il cinquantennale dello Statuto dei lavoratori, per lui, è ancora a giusto titolo «una festa. Senza l’articolo 28 della legge 300 del 1970, lo Statuto appunto, oggi non avremmo effettività nella tutela dei diritti in campo lavoristico», ricorda. «E oggi la stessa Corte di giustizia dell’Ue continua a ispirarsi a quella straordinaria conquista, all’idea che il sistema giuridico debba prevedere non solo i diritti ma anche le forme concrete per ottenerne l’effettiva tutela». Sono 50 anni. Non sono pochi. E soprattutto viene da chiedersi: lo Statuto dei lavoratori può conservare la sua forza, se nel frattempo i lavoratori, intesi come classe, sembrano dissolti? Un momento. È vero che lo Statuto è stato concepito in una cornice in cui lavoro e lavoratori facevano parte di un paradigma chiaro, ordinato. Ed è vero che oggi la velocità con cui cambiano le forme del lavoro, la rapidità di fenomeni quali la globalizzazione e l’imporsi dell’intelligenza artificiale, hanno creato tante diverse fisionomie di lavoratore. È vero che il fisiotipo dell’operaio Fiat non è più prevalente. Però non è vero che gli operai non esistono più. E soprattutto, pur in un quadro di situazioni diverse, tutte le categorie sono accomunate da alcuni bisogni essenziali, in cui riconosciamo ancora l’idea unica del lavoratore. D’accordo: ma allora il punto è che rispetto a 50 anni fa i lavoratori hanno perso capacità di rappresentanza. In parte è vero, ma qui abbiamo a che vedere con la dimensione collettiva di quella rappresentanza, che riguarda non solo i sindacati ma tutte le associazioni di categoria. Anche l’Anm, ad esempio. E anche, se non soprattutto, i partiti. Il punto è quanto siano cambiati la forza e l’orizzonte del movimento sindacale. Sono cambiati troppo? Nel 1970 il sindacato rappresentava una forza unica di difesa dei lavoratori rispetto a forme di disattivazione dei diritti. Oggi si è di fronte a una situazione che imporrebbe una pluralità di tutele, ma che vede il sindacato in difficoltà e non più dotato, agli occhi dei lavoratori, della stessa centralità di allora. Non è uno scarto da poco. No, però ribadisco: i bisogni comuni di tutela restano, eccome. E permane, si rinnova, persino la dialettica di 50 anni fa. Penso al dibattito di allora tra i fautori della rigidità dello Statuto, da una parte, e chi dall’altra spingeva perché la contrattazione aziendale trovasse maggiore spazio. Ebbene, oggi in un quadro pure assai diverso ci troviamo con categorie, ad esempio il salario minimo, che ricorrono in relazione a una gamma amplissima di soggetti. Si cerca non a caso una soluzione normativa in grado di potersi rivolgere a una platea indistinta. Il che, ancora una volta, dimostra che il lavoratore resta una categoria attuale. Allora è il collante dei grandi partiti di massa che è venuto meno. O no? Sa una cosa? È talmente vero che non riguarda solo i partiti di sinistra, non si tratta solo della scomparsa del vecchio Pci o del Partito socialista di allora. All’epoca dell’introduzione del nostro Statuto era decisiva anche la visione popolare cattolica. Tanto che in quella dialettica fra contrattazione collettiva e aziendale fu la Cisl a mostrarsi più gelosa della centralità. Eppure non credo che l’attuale difficoltà di una espressione collettiva di rappresentanza sia riconducibile al solo dissolversi delle vecchie forme partito. E quali altri fattori hanno agito? L’uniformità dell’associazionismo sindacale è stata erosa innanzitutto da due forze diverse ma concorrenti: da una parte le legittime teorie neoliberiste, legate all’evoluzione post-industriale, dall’altra visioni con un diverso grado di liceità, per così dire, come quelle elaborate in Italia dalla P2, nel cui schema teorico la rottura del fronte sindacale era il presupposto per un nuovo ordine politico. Dubito si possa negare che, delle tesi propagandate dalla P2, si rinvengano tracce in diverse vicende politiche del nostro Paese. Oltre a spinte del genere, l’indebolirsi dell’associazionismo sindacale si può spiegare anche con tendenze sociali più complessive come il prevalere dell’individualismo in tutti gli aspetti della vita. C’entrano anche i partiti, insomma, ma non sono l’unica spiegazione. I riders sembrano apolidi del diritto: rappresentano il fallimento dello Statuto o l’inadeguatezza dell’attuale civiltà del diritto rispetto a quella conquista? I riders costituiscono una dimostrazione di quanto il progresso tecnologico imponga sempre la ridefinizione delle categorie giuridiche. Le quali categorie, da che mondo è mondo, si accordano con fenomeni determinati. Ora, visto il ritardo del legislatore nell’individuare una nuova e adeguata forma giuridica per condizioni quali quella dei riders, noi magistrati finiamo per arrivare prima. La famosa “supplenza” dei magistrati. È una supplenza non voluta, che d’altronde una legge chiara e organica come lo Statuto non richiedeva. Oggi quella supplenza è inevitabile, visto il deficit di legislazioni coerenti e compiute. Basti pensare alla traiettoria normativa del superamento dell’articolo 18. Ma non pensiamo solo al singolo giudice del lavoro: come ricordato a proposito dell’effettività dei diritti, una funzione essenziale viene svolta dalle Corti superiori: non solo dalla nostra Consulta ma anche, per esempio, dalla Corte di giustizia dell’Ue. Ed è il caso di ricordare che nel tutelare i diritti dei lavoratori l’Europa costituisce un punto di avanguardia, spesso sottovalutato. Pensiamo solo a quanto sia stata decisiva per la regolarizzazione dei supplenti nella scuola. Oltre che con la supplenza, la magistratura può tutelare i diritti anche attraverso la funzione culturale del proprio associazionismo? Al di fuori delle aule di giustizia può farlo e lo fa. Si ricordi che il magistrato ha il vantaggio di incrociare gli aspetti patologici dell’ordinamento e della sua fenomenologia. Ma mentre con l’avvocatura e l’accademia l’attività di scambio culturale è intensa e proficua, a coinvolgerci meno sono proprio partiti e sindacati. Cioè coloro che oggi, anche per il bene dei lavoratori, avrebbero maggiore bisogno di ritrovare legittimazione e capacità di analisi.