«Sono un avvocato indagato a tempo indeterminato, intercettato da sette anni. Mi sono autosospeso dal Consiglio dell’ordine e ho chiesto di essere interrogato, ma ancora non mi hanno dato una risposta. Tutto questo mentre vogliono imporci il silenzio e l’obbedienza ai capi cosca partitici che inseriranno i loro compari e picciotti a rappresentare la Calabria in Parlamento». Lo sfogo durissimo è dell’avvocato Giuseppe Mammoliti di Locri ( che non ha alcun legame di parentela con l’omonimo clan) e che nei mesi scorsi è sceso in piazza, davanti ai suoi concittadini, a difendersi dalle accuse della Dda reggina. «Non sono e non mi sono mai sentito il Vito Ciancimino di Locri - ha spiegato -. Non ho mai servito due padroni ma solo il popolo, coi miei modesti mezzi ma con la generosità verso gli altri».

L’accusa che gli viene mossa dalla procura antimafia è pesante: concorso esterno all’associazione mafiosa che, per anni, ha soffocato la città. I Cataldo e i Cordì, pezzi da novanta del crimine jonico, uniti in una pace di interessi dopo un’atroce faida iniziata negli anni ‘ 60. Mafiosi e presunti tali che Mammoliti, da penalista, ha difeso nei processi più importanti celebrati in Calabria. Per l’antimafia, l’avvocato avrebbe «concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione ed alla realizzazione degli scopi» del clan, in quanto attraverso «uno stabile rapporto di tipo collusivo», sfruttando il suo ruolo di avvocato, «comunicava e diffondeva notizie riservate», grazie ad «appoggi e contatti presso soggetti istituzionali non identificati, relative ad indagini in corso ed a nuove collaborazioni di giustizia, veicolava all’esterno messaggi e comunicazioni provenienti dai soggetti detenuti, concordava e suggeriva stra- tegie operative ( esulanti da qualsivoglia mandato difensivo)». Così avrebbe contribuito a rafforzare il potere dei Cataldo, dai quali avrebbe ricevuto, in cambio, «supporto nella consultazione elettorale comunale» del 2013. Le carte dell’inchiesta lo descrivono come un «riferimento» per il clan di cui fanno parte molti dei suoi assistiti. «Se lo fossi stato - spiega - non mi sarei dimesso sistematicamente da consigliere comunale. Io faccio l’avvocato, non ho mai fatto il socio sostenitore dei clan». Un’attività, quella di avvocato, che gli ha anche impedito il tesseramento nel Pd, partito di cui ha sempre fatto parte, spesso in forte polemica col segretario della sua città, Giuseppe Fortugno, figlio dell’ex vicepresidente del Consiglio regionale barbaramente ucciso durante le primarie dell’Unione nel 2005. «Mi è stata negata l’iscrizione perché difendo i mandanti, secondo un giudicato definitivo per il quale è in corso un’attività di revisione, dell’omicidio Fortugno», ha denunciato. Si definisce «uno che non ha mai saputo approfittare della situazione» e «in simbiosi con chi ha avuto più bisogno, chi è stato ai margini e non chi si accingeva ad entrare nelle patrie galere». La Procura è però convinta che Mammoliti abbia beneficiato dei suffragi del clan Cataldo, diventando per loro un alleato. Lui, però, si sente un riferimento solo «per gli ultimi» : «non ho aiutato il clan ma qualche povero disgraziato sotto usura a fare la spesa o a pagare i conti». E, spiega, vuole continuare a farlo, così come non rinuncia alle sue vesti di avvocato. Ma solo una volta terminato il processo, se ci sarà. «Attendo di essere sentito dai pm - conclude -. Intanto chiarisco questo: non ho passato informazioni al clan sugli arresti, mi sono limitato a riferire quanto dichiarato dal procuratore antimafia in un’intervista del 14 dicembre 2014 su imminenti blitz. È di quelli che io parlo. Del resto non so nulla».