«A sinistra c’era un’altra porta, che portava alla camera delle docce. Le persone entravano per accaparrarsene una, e si strofinavano aspettando l’acqua. Ma l’acqua non veniva mai: la doccia, in realtà, era una camera a gas». La voce di Shlomo Venezia risuona nel Teatro dell’Opera di Roma, mentre il silenzio avvolge la platea che si trova davanti all’orrore dello sterminio.

L’occasione è la Giornata della Memoria, che ricorre il 27 gennaio: quest’anno l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in collaborazione con la Fondazione Museo della Shoah e con il Teatro dell’Opera, l’ha celebrata con un evento speciale che si è tenuto lunedì scorso alla presenza della Presidente Ucei Noemi Di Segni, del Presidente della Fondazione Mario Venezia e del Sovrintendente capitolino al Teatro dell’Opera Francesco Giambrone.

Nel corso della serata è stato proiettato in anteprima il documentario “Il respiro di Shlomo”, scritto dallo storico Marcello Pezzetti e diretto da Ruggero Gabbai: un’opera che racconta la storia di Shlomo Venezia, ebreo di nazionalità italiana nato a Salonicco, arrestato e deportato insieme a tutta la famiglia nel 1944 ad Auschwitz Birkenau, a Mathausen e infine ad Ebensee.

A guidare il racconto è proprio la voce di Shlomo, recuperata da una serie di interviste realizzate tra Roma e Auschwitz da Pezzetti per un progetto del Centro di documentazione ebraica di Milano. La testimonianza che ne emerge è preziosissima, unica: Shlomo è uno dei pochissimi sopravvissuti tra i prigionieri selezionati per entrare nell’unità speciale dei Sonderkommando, una squadra che aveva il compito di lavorare all’interno delle strutture dei crematori. Ed è stato tra i pochissimi a raccontare la sua storia negli ultimi 20 anni. Insieme a Pezzetti, all’inizio degli anni ‘ 90 è tornato al campo moltissime volte, nel tentativo di ricostruirne l’interno meccanismo di messa a morte.

Il suo è un “racconto semplice”, spiega Pezzetti. «Non c’è alcuna considerazione di valore, ci sono solo fatti. Un’adesione totale a quello che ha visto con i propri occhi», sottolinea lo storico. Gli stessi occhi, lo sguardo, attraverso il quale è sviluppato il documentario. Che offre un’ulteriore occasione per riflettere sull’importanza di coltivare la memoria.

Ad accompagnare la proiezione, nella cornice del teatro romano, la musica del “violino di Auschwitz”, appartenuto al musicista polacco Jan Hillebrand: uno dei rarissimi strumenti originali, che venivano suonati nel campo di sterminio simbolo della Shoah, ritrovato e fatto restaurare da Francesco Lotoro, tra i più grandi esperti al mondo di musica concentrazionaria. «È stata una serata molto importante, oltre che commovente», spiega la presidente Di Segni. «La presenza di molti esponenti istituzionali – prosegue ha dato atto di quanto sia un tema sensibile, importante, su cui esprimere attenzione».

Nel docufilm, sottolinea Di Segni, «abbiamo visto con quale linearità vengono rappresentati i fatti di un tale orrore per riuscire con coraggio a trasmettere al pubblico, e agli studenti presenti, quello che Shlomo Venezia non riusciva a dire neanche ai suoi figli». La presidente Ucei sottolinea infine l’importanza del ruolo svolto dal Teatro dell’Opera: non solo come “spazio”, ma come promotore di quella che «dovrebbe essere oggi la funzione della cultura».

«L’occasione unica di poter ascoltare il suono di un violino rinvenuto ad Auschwitz e la voce di uno dei testimoni della Shoah è stato di grande impatto emotivo», commenta la presidente del Cnf Maria Masi, tra gli ospiti della serata. «Il silenzio che ha caratterizzato tutta la durata dell’evento è il segno che c’è terreno fertile per assimilare e per raccogliere il testimone che deve essere proprio delle nuove generazioni per continuare a coltivare la memoria della Shoah, con ogni strumento possibile».