Patito com’è della cultura francese, tanto da esservisi rifugiato, o tornato, dopo la delusione procuratagli dalla politica italiana col brusco licenziamento da Palazzo Chigi per iniziativa del suo stesso partito - il Pd- appena passato sotto la guida di Matteo Renzi, nel 2014, Enrico Letta dev’essere rimasto come una statua di sale a leggere la lunga e bella intervista di Marcelle Padovani a Repubblica sui suoi quasi 50 anni trascorsi in Italia.

Dove venne da Parigi, inviata dal suo Nouvel Observateur, per un reportage politico e, affascinata da Bruno Trentin intervistandolo, vi rimase per unirsi a lui. E per scoprire e apprezzare l’aspetto o addirittura «la natura di laboratorio» politico e sociale del nostro paese. Cioè di un luogo «dove - ha spiegato - si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse».

Il compianto Trentin, da lei conosciuto come segretario generale della Fiom ma destinato a diventare nel 1988 segretario confederale della Cgil, aiutò Marcelle, di una ventina d’anni più giovane di lui, a conoscere e capire il laboratorio di una sinistra ancor più divisa ed esposta al vento del terrorismo che nella sua Francia.

Giovanni Falcone, che la trattò in un primo momento a Palermo con una rudezza da fuga ma alla fine se ne fidò a tal punto da scrivere praticamente con lei un libro a quattro mani, al cui testo dattiloscritto in francese propostogli nel 1991 a San Candido apportò solo qualche correzione, l’aiutò a conoscere il laboratorio della mafia e quello attiguo direi - dell’antimafia. Dove curiosamente si lavorava più contro Falcone che contro i mafiosi su cui indagava il magistrato più raffinato e culturalmente attrezzato d’Italia in quel tipo di lavoro.

Non a caso la mafia lo avrebbe liquidato l’anno dopo, nel 1992, con una ferocia bestiale, organizzando contro di lui a Capaci un attentato da mattanza, quasi come quello che due mesi dopo avrebbe eliminato l’amico e collega Piero Borsellino.

Secondo Marcelle noi italiani, con i quali prudentemente non si confonde, come con gli stessi francesi, preferendo definirsi per le origini isolane della sua famiglia una «corso- trasteverina», dimentichiamo «troppo in fretta» sia la natura di laboratorio del nostro Paese sia i successi che riusciamo a conseguire. «Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo», ha detto.

«Il populismo è sconfitto?», le ha chiesto con un certo scetticismo Concetto Vecchio. E lei, sicura e al tempo stesso rapida nell’intuire l’errore che forse il suo intervistatore probabilmente in linea, come vedremo, col segretario del Pd Enrico Letta - stava commettendo, ha risposto: «Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è soltanto un demagogo che ricorre al populismo quando gli serve».

Ecco il punto, come accennavo. E come il segretario del Pd temo che non abbia per niente gradito e tanto meno condiviso. Da quando è succeduto a Nicola Zingaretti interrompendo il suo dorato esilio parigino, fatto di insegnamento e di consulenze ben retribuite che gli ha appena rinfacciato un giornale come il debenedettiano Domani, che pure ad occhio e croce sembra condividerne la linea, Enrico Letta ha continuato a scommettere come il suo predecessore sull’evoluzione, chiamiamola così, dei pentastellati, anche a costo di trovarseli, con Giuseppe Conte alla presidenza del Movimento, competitivi elettoralmente. E ciò almeno per quel poco che rimarrà dei grillini nelle prossime elezioni, anticipate o ordinarie che finiranno per essere, dopo o a causa del modo in cui le Camere scioglieranno a febbraio il nodo del Quirinale. Su cui peraltro Marcelle ha mostrato di avere idee, al solito, molto chiare. «Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato», ha detto la giornalista e scrittrice, convinta dell’opportunità, anzi necessità, che Mario Draghi debba «rimanere a Palazzo Chigi» perché «ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo».

Ma su questo penso che anche il segretario del Pd possa e debba riconoscersi, riprendendosi dal colpo ricevuto con la denuncia del “populismo” pentastellato più autentico e pericoloso, nella valutazione di Marcelle, di quello di Salvini avvertito e denunciato invece da Enrico Letta. Che nel suo antileghismo forse da ossessione più che da analisi, ignorando per esempio la musica che ormai suona quasi quotidianamente da quelle parti il ministro Giancarlo Giorgetti, si è messo a cavalcare anche il caso provocato dal sottosegretario salviniano Durigon. Il quale ha proposto di reintestare ad Arnaldo Mussolini il parco di Latina assegnato alla memoria di Falcone e Borsellino. «È la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no», ha commentato con la solita franchezza Marcelle, la “corsa- trasteverina” che Enrico Letta potrebbe incontrare e frequentare solo attraversando dalla sua casa al Testaccio il primo ponte a portata di piede sul fiume di Roma.