Accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità Benjamin Netanyahu rischia di cadere per un banale affaire di corruzione da 180 mila euro in regali di lusso e per accordi sottobanco con editori compiacenti. È la sproporzione perfetta tra l’enormità della storia e il piccolo calibro della cronaca, un paradosso che ricorda quello di Al Capone, boss della mafia italoamericana responsabile di centinaia di omicidi ma condannato per evasione fiscale.

L’uomo che ha dominato la politica israeliana per oltre due decenni, sopravvivendo a scandali, crisi, guerre e ricomposizioni parlamentari impossibili, rischia così di terminare la sua carriera non a causa delle stragi di Gaza, ma per qualche cassa di sigari e di champagne.

Il premier israeliano lo sa benissimo e per questo ha chiesto la grazia al presidente Isaac Herzog in una lettera formale in cui sostiene che le indagini e il processo – aperti nel 2016 e in corso dal 2020 – «nuocciono agli interessi nazionali» e impediscono di affrontare le questioni di sicurezza e diplomazia. Un argomento che, per molti, ribalta il rapporto tra responsabilità politica e giudiziaria: non è il processo a nuocere allo Stato, ma la permanenza al potere di un premier sotto processo a delegittimare il governo.

Lo stesso pensiero delle migliaia di manifestanti che domenica scorsa sono scesi in piazza a Tel Aviv e Gerusalemme chiedendo le immediate dimissioni di Netanyahu, la convocazione di elezioni anticipate e ammonendo Herzog perché non conceda la grazia. Il gesto è quasi senza precedenti, perché di solito il potere presidenziale di clemenza — un’eredità giuridica del mandato britannico — interviene dopo una condanna, non prima. La legge lo permette solo in casi eccezionali, come accadde nel 1986, quando Chaim Herzog (padre di Isaac) graziò alcuni agenti dello Shin Bet coinvolti nell’uccisione di due prigionieri palestinesi, il cosiddetto “caso del bus 300”.

Bibi è coinvolto in tre distinti procedimenti giudiziari denominati Case 1000, 2000 e 4000. Il primo riguarda i regali ricevuti da amici miliardari – sigari cubani, champagne, gioielli per la moglie Sara – per un valore di circa 180.000 euro. Il secondo ruota intorno a un presunto patto con Arnon Mozes, potente editore del quotidiano Yedioth Ahronoth, l’accordo — mai perfezionato, ma sufficientemente documentato — prevedeva che il premier sostenesse una legge per limitare la distribuzione del quotidiano rivale Israel Hayom, in cambio di una copertura giornalistica più favorevole. Non si parla solo di pressione sui media, ma di uno scambio diretto tra potere politico e potere editoriale, che — se dimostrato — erode il principio fondamentale della neutralità dell’informazione.

Infine il Case 4000, il più grave, costituisce il cuore del processo in corso. Netanyahu, allora ministro delle comunicazioni oltre che premier, avrebbe favorito il gruppo Bezeq, gigante delle telecomunicazioni, attraverso decisioni che valevano centinaia di milioni di shekel per l’azienda. In cambio, il sito d’informazione Walla! — controllato dagli stessi proprietari di Bezeq — avrebbe garantito una copertura estremamente favorevole alla famiglia Netanyahu, fino a coordinare toni, timing, persino fotografie. Se il Case 2000 riguarda un patto mancato, il Case 4000 verte su uno scambio che, secondo la procura, si è realmente concretizzato. È qui che entrano in gioco le accuse più pesanti: non solo abuso di fiducia, ma corruzione piena.

Tra i sostenitori più veementi del premier c’è naturalmente Donald Trump, che davanti alla Knesset aveva addirittura suggerito pubblicamente al presidente israeliano di graziarlo. Una richiesta che poi ha messo per iscritto, definendo il processo «una persecuzione politica».

Non si sa se il supporto rumoroso del presidente Usa sia un vantaggio o una zavorra per Netanyahu. Herzog ha già dichiarato che la richiesta ha un carattere «eccezionale» e che agirà con la massima trasparenza: un modo elegante per segnalare che la decisione sarà lunga e tormentata. Allo stesso tempo il presidente promette di non farsi influenzare dal confronto politico, violentissimo, in corso. Da parte il ministro della giustizia Yariv Levin e la procuratrice generale Gali Baharav-Miara dovranno esprimere pareri consultivi, non vincolanti sull’eventuale grazia.